Sulla grande bellezza “hanno tutti ragione”
Sono lontani i tempi del cinema di Zampa, di De Sica e di Rossellini. S’è perduta la lanterna che nel cinema di Rosi e di Petri orientava lo sguardo verso i vizi e le nevrosi del potere, l’eterna maledizione del tormento passionario a firma del cinema in forma di tragedia bucolica dei fratelli Taviani è tornata nei chiaroscuri di indisponibili dimensioni private, ahinoi, come una tessera stinta di qualche dopoguerra, di cui, prima o poi, sarebbe capitato di disfarsi. Il carteggio del cinema italiano, che non era soltanto italiano, perché nel suo sguardo allo spazio “europeo”, nel suo recupero di ancore senza navi, nella sua disperata e lucida ricerca delle derive perdute tra le direzioni di un mondo intero, oggi, forse pure da un ieri ormai nemmeno così vicino, si congeda come il Novissimum Testamentum di Sanguineti, “rinunciando per sempre all’universo”, e facendo l’inchino alla sala vuota di una platea dispersa.
Su La grande bellezza si sono espressi tutti, ma proprio tutti, con la “scucchia” alta e la parola pronta, disgustata e ammaliata, adombrata e spavalda, pudica e prudente, alticcia e disorientata. Solo gli uccelli a cui andò in dote l’arte del sorvolo, hanno rumoreggiato il battito d’ali sopra l’unico silenzio. Non so quale affronto o tenerezza mi abbiano procurato maggiore meraviglia, se il paragone inappropriato col cinema di Fellini – nessun Fellini, nessun Fellini per favore – se la realizzazione in pellicola della letteratura di Céline, purtroppo tradita, nell’evasione del suo esergo, o la regola aurea della magnificenza applicata all’emergenza nazionale dell’estetica salvatrice, che, ammettiamo una volta tanto con serietà l’urgenza, s’aggira come una disperata senza più lacrime tra le macerie visibili e invisibili di un luogo senza più pudori.
Non è forse già una tragedia che un popolo disomogeneo perduri a degradarsi senza averne cognizione, di quella parola dentro quel titolo che soltanto a leggerlo fa venire i brividi? Invece non ho letto una parola azzeccata che sul quel film poteva essere detta. Non so se l’unica, ma quella sì, andava spesa. La parola fine, perché semmai un giorno arriverà un’apocalisse della letteratura e di tutte le arti, la rivelazione del giudizio sarà la parola fine. Jep Gambardella è attaccato alla sua vita di meditabondo viziato e privilegiato in pena di sé, camminando con lentezza dentro il labirinto di ossessioni e di paure dove piomba l’uomo quando capisce che prima o poi la sua vita finirà. Le religioni, le fedi, i dogmi, si sono originati in epoche lontane. La modernità non ha saputo escogitare niente che potesse confortare l’angoscia per eccellenza, la parola fine. Il momento del calcolo netto non è scongiurabile dentro una società votata alle soddisfazioni di frivoli edonismi, soprattutto se scovabili in ogni momento dentro il parapiglia di occasioni.
Rispetto a un film dove, a mio modesto avviso, regnano rari momenti di intelligenza e troppi acuti di vanità adolescenziali, tanto l’ammirazione cieca e incondizionata, tanto il gioco al massacro per partito preso, sono la degna rappresentazione dell’iscrizione generale a uno dei pochi intenti efficaci de La grande bellezza, quello di verificare, in via del tutto involontaria, il grado di disorientamento della vanità all’italiana. Tutti hanno preso parte alle feste del protagonista, tutti ne prendono parte e tutti ne prenderanno parte.
In un momento in cui nessuno ha qualcosa da dire, in una sommatoria di critiche alla critica, di insulto all’insulto, in una dedizione al vuoto in questo dividendo di isterismi, la parola bellezza è esplosa sulla bocca di tutti, è diventata più frequente durante gli spot pubblicitari andati in onda tra una parte e l’altra della prima televisiva, in una specie di accordo marketing in versione glamour, tra una sponda di romanticismo industriale e un patetico vanto di patriottismo. E pensare che Aristotele, Sant’Agostino e Dostoevskij la recuperarono e rielaborarono con tutte le sofferenze intellettuali, quell’idea inarrivabile di una parola soggiogata quotidianamente, improvvisamente diventata la più pronunciata dalla critica di massa, certificando, ancora una volta, la regola dell’alto consumo delle nuove produzioni artistiche, destinate a durare il tempo della divulgazione.
Al di là di ogni sospetto sulle strategie della comunicazione prestata alla finanza e alla politica, non è in corso un restauro, a questo punto pure indesiderabile, piuttosto una visita tra le rovine di un sistema di sensibilità. La creatività oggi preferisce fare in modo che un’idea galleggi, invece che piantarsi ferma e granitica per non scomparire più. Non c’è più spazio per le fondamenta, e non perché sia stato detto tutto, ma perché ci si è accorti della comodità del niente. Non importa quanto valga questo film, perché non si sarebbe potuto commettere errore peggiore che pensarlo come la continuazione di un passato finito dietro l’ultimo tramonto, perché al pensiero ormai manca il coraggio di affrontare la parola fine, che un tempo s’accompagnava a timorose e prudenti sperimentazioni di altre sensibilità creative. La parola fine, non a caso, campeggiava sempre nell’ultima scena di un film, perché i ruderi morali e spirituali, le fatiche, gli sfinimenti, le atrocità, poco prima avevano fatto capolino nell’animo di tutti, dei creatori, dei divulgatori e degli osservatori, portando al collo un cartello con su scritto “fine”.
Questo film è già stato consegnato a un futuro che si intuisce, che si vede, a dispetto di ogni geniale disimpegno dei tentativi profetici. È nel totale delle critiche. In fondo, vale la pena ricordare che è stato proprio Sorrentino a scrivere un libro, nemmeno a farlo apposta, intitolato “Hanno tutti ragione”.