“Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf
di Claudia Malafronte
Non è possibile conoscere con certezza il punto d’origine preciso, l’epicentro, il nucleo pulsante, da dove deriva l’affermazione capitale con cui Virginia Woolf apre il suo saggio Una stanza tutta per sé: “Se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé”. Eppure è possibile approssimarsi a questo centro ideale con un’intuizione che lei stessa ci suggerisce nel corso della narrazione, riportando un dato biografico sorprendente, riguardante una delle sue autrici preferite, Jane Austen: “Non aveva uno studio proprio in cui rifugiarsi, e la gran parte della sua opera deve essere stata scritta nella sua stanza da soggiorno comune, dove era soggetta a ogni sorta di interruzioni casuali. Faceva in modo che né le persone di sevizio né i visitatori o chiunque altro al di fuori della famiglia si accorgessero di quello che stava facendo”.
Tale elemento, apparentemente insignificante della vita di Jane, rappresenta per Virginia il punto focale da cui sviluppare un’argomentazione lucida a appassionata sulle Donne e il romanzo, il titolo della conferenza da cui deriva l’opera. Nonostante l’occasione per la quale è stato scritto, il libro della Woolf non ha nulla del distacco lucido e razionale con cui viene costruito un discorso pubblico. Al contrario. Con piglio ironico e assolutamente personale, Virginia sembra utilizzare la conferenza come una sorta di escamotage letterario per raccogliere una serie di riflessioni frutto della sua esperienza di lettrice prima che di autrice. E’ lei stessa ad ammonirci sulla portata delle sue parole che non rappresentano “un nocciolo di verità pura da serbare ripiegato tra le pagine del vostro quaderno di appunti o da custodire per sempre sulla mensola del caminetto”.
Si tratta piuttosto di un distillato empirico tratto direttamente dalle vite delle scrittrici che l’hanno preceduta e delle quali ha seguito le tracce minime che le hanno consentito di tracciarne il percorso. Così è giunta a scoprire quella stanza tutta per sé, un luogo che, chiunque sia toccato dall’ossessione di scrivere, ha visitato almeno una volta. Quello di Virginia Woolf non è uno spazio fisico, ma un angolo nascosto nell’anima di chiunque desideri che l’opera si realizzi superando gli strati immaginari della creatività letteraria. Per le donne quel luogo è stato a lungo precluso da divieti e doveri che hanno condotto altrove le proprie aspirazioni, lasciando per secoli pagine e scaffali vuoti. Ma poi quelle stesse donne quel punto l’hanno ritrovato, come “la naturale conseguenza di un inizio innaturale”. Novelle Arianna hanno recuperato il filo rosso che conduce fuori dal labirinto delle ammonizioni e dei pregiudizi, per giungere a quella stanza tutta per sé che ciascuna ha aperto all’altra per farla entrare e accoglierla. Tra queste scrittrici un posto speciale, per Virginia, lo merita Jane Austen. Il vero miracolo della sua opera, secondo l’autrice inglese, è che “una donna all’inizio dell’ottocento scriveva senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza far prediche. La stessa condizione nella quale scriveva Shakespeare (…) E per questa ragione quando alcuni paragonano Shakespeare e Jane Austen forse intendono dire che ambedue erano riusciti a dissolvere nella mente ogni ostacolo; ed è per questa ragione che non conosciamo Jane Austen e non conosciamo Shakespeare; ed è per questa ragione che Jane Austen pervade di sé ogni parola che ha scritto proprio come fa Shakespeare”.
Se la “stanza” non rappresenta uno spazio reale ma mentale, è pur vero che uno degli ostacoli maggiori per le prime scrittrici è stato rappresentato dalla limitatezza della propria libertà di movimento. Eppure, paradossalmente, la ristrettezza degli spazi esteriori ha contribuito ad accrescere la potenza immaginativa e descrittiva di alcune autrici. Una di loro è senz’altro Charlotte Bronte, di cui Virginia riporta un passo indimenticabile tratto da Jane Eyre: “Desideravo ardentemente una capacità di visione che fosse in grado di oltrepassare quel confine; che fosse in grado di raggiungere quel mondo indaffarato, e le città, e le regioni piene di vita delle quali avevo sentito parlare ma che non avevo mai visto; desideravo un’esperienza pratica più grande di quella che possedevo”. Non si può immaginarla senza una finestra la stanza di Virginia, una finestra che dà sulla brughiera e sui suoi fiori, sul fiume più in là a passare tra l’erba alta, quello in cui troverà la morte, il suo ultimo atto di vita.
Da quella finestra, però, lei ancora ci guarda e ci invita ad entrare nella sua stanza, nelle sue pagine. Pagine che non appartengono solo alle donne ma a chiunque sia avvinto dalla frenesia e dalla tortura della scrittura. Perché Virginia, in fondo, racconta la perenne tensione tra l’esterno e l’interno, tra la propensione alla vita e quella alla scrittura, in un rapporto che sottopone l’esistenza a sforzi votati alla rappresentazione dell’eterno. Non fatevi distrarre dal chiasso e dalla moltitudine che vengono da fuori, sembra dire Virginia. Come una Gorgone essi trasformano le parole in pietre lasciandole morire in bocca. Scavate a fondo dentro di voi, fino a staccarvi dal caos e dal rumore del mondo, fino a tornare in quell’unico punto del vostro paesaggio interiore, in quella stanza tutta per voi, in cui magicamente, dal vuoto e dal silenzio, nasce l’opera letteraria.