Antigone, parentele al di fuori della norma

Era il 23 maggio del 2012 quando, sul mio profilo Facebook postavo: “In metro può capitare anche questo, ascoltare due ragazze che ripetono a turno e ad alta voce, la parte che poi, chissà dove, reciteranno e scoprire che si tratta dell’Antigone di Sofocle”.

Diciamo la verità, Sofocle è più conosciuto per la simpatica battuta «che caldo! … Qui si Sofocle» che per Antigone o Aiace. Eppure, l’Antigone è una di quelle tragedie che coinvolgono, appassionano e, come si direbbe oggi per un film di successo, fa botteghino. Si sono occupati di “Lei”, poeti, filosofi, musicisti, letterati, antropologi, teologi, psicologi e psicoanalisti, cimentandosi in traduzioni, riscritture, interpretazioni, trasposizioni. Per fermarci al solo secolo scorso, basta menzionare Carl Orff ,Honegger e Cocteau, il Living Theatre, Yeats,  Heidegger, Anouilh, Böll, Brecht, e soprattutto Lacan.

La protagonista dell’opera è la sciagurata rappresentante di una parentela al di fuori della norma, figlia di suo fratello (Edipo), che aveva sposato sua madre e, secondo diverse allusioni, innamorata del fratello Polinice. Una donna che si situa in una posizione incomprensibile ai più, ma che oggi più che in passato, è riscontrabile nella nostra società. Infatti, dopo la crisi della famiglia patriarcale, vengono a crearsi legami nei quali c’è chi ha più madri e padri a seguito del divorzio dei genitori, chi ha figli da più matrimoni, chi ha una famiglia monoparentale, chi un compagno di vita dello stesso sesso.

Ma c’è di più. Antigone la folle (come la definisce la sorella Ismene), sfida il potere e sacrifica la vita pur di assicurare al corpo del fratello Polinice la sepoltura che il re di Tebe non vuole concedergli per motivi politici. Polinice, infatti, espulso da Tebe, nel tentativo di farvi ritorno e conquistarne il governo, muove guerra alla città. Il tentativo fallisce e Polinice muore per mano del fratello Eteocle. Il re di Tebe, Creonte, considerando Polinice un traditore, ordina che il suo cadavere rimanga insepolto e abbandonato fuori le mura della città, miserevole pasto di cani e di uccelli.

L’ammissione di colpevolezza di Antigone dinnanzi al Tiranno, è di quelle che destabilizzano lo spettatore, le leggi alle quali lei si è sottoposta, quando ha cosparso di terra il cadavere del fratello, non sono quelle dei mortali bensì quelle morali non scritte, che ogni uomo trova dentro di sé, ed abbracciano ogni parte del cosmo, il mondo dei vivi come quello dei morti. Sono leggi inalterabili, fisse, che non da ieri, non da oggi esistono, ma eterne. “A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dike, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove.”(vv.450-457).

Come già accennato, oggi, Antigone la ritroviamo nel compagno\a non sposato\a che in caso di decesso del convivente vede negate le decisioni sul funerale che spettano solo ai parenti, spettano a Creonte, all’ordine riconosciuto. Antigone, al pari di un estraneo, non può accedere alla cartella clinica del compagno, a meno di un’apposita scrittura privata e non può prendere decisioni in caso di un intervento medico urgente e rischioso. Non ci sarà, per lei, riconoscimento di assegno di mantenimento ed eredità.

La filosofa tedesca Hannah Arendt sente negli splendidi versi dell’eroina, le voci di quanti sono esclusi dalla sfera pubblica ma continuano dai margini a chiedere riconoscimento. Vede evidenziarsi nel suo agire, il mancato legame tra dimensione privata, lo spazio familiare e la dimensione corale e pubblica, l’agorà.

Nell’Estetica Hegel, scrive che Antigone e Creonte “vengono presi ed infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della loro esistenza”, quindi la tragedia dell’escluso trascina con sé anche quella dell’ordine costituito. Ordine costituito che deve ragionare in termini globali e rendersi conto che il popolo degli esclusi è numericamente enorme e in espansione.

La dolorosa attualità dell’opera di Sofocle è, infatti, anche in quel Coro, quel “personaggio collettivo” tipico della tragedia greca, che partecipa alla vicenda tanto quanto gli attori stessi. Quel Coro che “deve essere considerato uno degli attori, deve essere parte del tutto e deve contribuire all’azione” come scrive Aristotele nella Poetica. Come accade per l’odierna opinione pubblica, il Coro vuole obbedienza assoluta alle leggi della città, e non ammette che queste possano essere in disaccordo con la legge divina. Il comportamento di Antigone è, agli occhi del Coro, più colpevole di quello di Creonte! Diviene, dunque, “espressione della massa, incapace di distinguersi dalla ideologia dominante, che si ritiene costruttrice e compartecipe del regno, della gloria e della potenza del re (nel dire “tua” a Creonte, dice “nostra”), di cui è invece solo supporto ed esecutrice.”[1]

L’esatto contrario di Antigone è la sorella Ismene che, pur intuendo quanto sia fondata la posizione della sorella, non la segue nella sepoltura del fratello. Ismene è l’incarnazione di una debolezza che non è dovuta solamente alla sua natura di donna, incapace di opporsi ai voleri degli uomini (vv.61-62), ma trova fondamento nell’inerzia di chi non vuole assumersi responsabilità nei confronti del potere, fino a considerare insensato o addirittura colpevole chi queste responsabilità si sente di prendere su di sé: “commettere eccessi non ha nessun senso” (v. 68).

Questa è Antigone: non l’eroina che pronuncia splendidi versi ma una scomoda realtà per i Creonte e le Ismene di ogni tempo, in disagio di fronte a chi sa affermare fino alle estreme conclusioni, quella verità che essi negano in nome dell’interesse immediato o perché incapaci di ascoltare qualsiasi voce che annunci un ideale più grande della nostra persona.

 Rolando

[1] Giulia Paola Di Nicola, Nostalgia di Antigone, Effata Editrice IT, p. 72

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