Che schifo questa Italia delle “puttanerie” di porto
L’Italia dell’ode all’ingegneria del soccorso, il rovescio di quella che invece reprime e deprime quella della ricerca scientifica, rimorchia in pompa magna il rottame della nave Concordia, facendogli il funerale di stato, invece di “nasconderlo”, di privarlo ai riflettori, se non altro per un po’ di dignità, di vergogna, dopo tutto quello che è successo. Nulla contro il lavoro di tante persone, costato pure la vita a un giovane sommozzatore spagnolo, nulla contro l’impegno di tecnici e di ingegneri, chiamati, in fondo, a fare il proprio dovere, nel marasma confusionario della teoria generale della consulenza. Però quella manfrina mediatica qualcuno avrebbe potuto risparmiarsela, rischiando lo sciacallaggio su una vicenda dove l’unica cosa seria è stata, purtroppo, la morte di tante persone.
Basta con questi primi ministri che non perdono occasione per comportarsi come oratori da televendite, a capo di governi formati da eterni finti litiganti, che in fondo hanno sostituito portaborse e servette con altri portaborse e altre servette, in una rivoltante e ripetitiva armonia con opposizioni altrettanto finte, se non addirittura compiacenti, capeggiate da urlatori e da maniaci dei social network, andati a scuola da isterici megafonisti della comicità. Ogni scusa è buona, pure il rimorchio di una nave rimasta per anni a fare da simbolo di una tragica brutta figura, per fiondarsi a ripetere slogan della retorica da doppiopetto, con questa insopportabile abitudine di coniugare azioni all’infinito. Ricominciare, ripartite, camminare, riprendere, voci verbali per le quali molto spesso dietro quella retorica del noi si nasconde il culto di un io, allevato per guidare la provvisorietà politica di un tempo che non ha nulla di interessante da dire e niente di utile da realizzare, se non l’interesse privato, a cui aderiscono in massa molti cittadini ai quali fa comodo che esistano i partiti dell’ibrido, perché più funzionali alla salvaguardia di quegli interessi personali che, chissà perché, non rientrano nel facile giudizio e nella indignazione di massa, forse perché ricaduti su se stessi, e il se stesso non è processabile.
Sta sbiadendo pure la sensibilità per gli immigrati, che continuano a morire come muoiono da sempre, e non per colpa dei viaggi clandestini, ma a causa di quello che sta dietro i viaggi clandestini, dalla situazione internazionale alle ragioni della speculazione. L’immigrazione dei disperati conviene pure all’economia, a una parte consistente dell’economia, a quella criminale, a quella di certi “settori” dell’imprenditoria più spregiudicata, fino alla rifinitura retorica della strumentalizzazione politica. Sembrano lontani i tempi di altre polemiche, di altri sospetti, di altre responsabilità, come se in mare fossero annegati anch’essi. E mai nessuno a reprimere le pulsioni della retorica interventista, della gara all’opinione più veloce, piuttosto che chiedere agli operatori di cosa avrebbero bisogno. Mai qualcuno che si preoccupasse di chiedere udienza alla sensibilità.
È l’Italia delle portualità prostituite, dell’andirivieni delle convenienze, del reflusso marino di “quei posti davanti al mare”. Nel mentre, nel ricondotto alle misere proporzioni del quotidiano, vanno di moda le teorie delle tiepidezze, incensate e infiorettate da illustri citazioni, di quello che in molti casi non è stato neanche vissuto in prima persona e di quello che sopravvive ai poster in una stanza. “Adeguarsi ai tempi”, “Capire che le cose cambiano”, “Riuscire ad adattarsi”, saturano il prontuario di rassicuranti luoghi comuni, che invece sono soltanto lo specchio dialettico della rassegnazione e della mediocrità, nonché di subdole forme di convenienza, guarda caso perfettamente in linea con la salvaguardia dei più piccoli interessi personali.
Passa tutto per quella maledetta cultura secondo la quale adeguarsi è da dritti, con l’unica differenza che questa mentalità, un po’ mafioide, tipicamente all’italiana, da intrallazzatori con lo spirito puro, con la faccia sorridente e la bocca come il vino buono, ha sostituito il dovere dell’indignazione e la necessità della reazione. “Adeguarsi”, pure se si tratta di farlo col peggio, pure a costo di peggiorare insieme al luogo dell’adeguamento.
Gli italiani sono quegli “adeguati” che prima bevono a più non posso discutendo di politica e vantandosi di farla ogni giorno nella maniera migliore, e poi, alla fine della festa, si fermano alla prima discarica che trovano lungo la strada, per pisciare davanti all’immondizia sopra la terra che mezz’ora prima avevano detto di voler salvare.