Su “La montagna dell’anima” di Gao Xingjian: viaggio di un’anima errante
di Claudia Malafronte
Parlare di anima è difficile per chiunque, ma lo è ancora di più nella Cina dell’89, pochi mesi prima della strage di Piazza Tienanmen, quando il sogno del comunismo realizzato si infrange e si materializzano i fantasmi del terrore e della repressione. Per questo La montagna dell’anima di Gao Xingjian, scrittore cinese mai prodotto in Cina, è una sfida a partire dal titolo. Non una sfida politica o ideologica, ma esistenziale ed umana, a una cultura che cancella l’io e i retaggi millenari, per separare l’uomo dalle sue radici, da se stesso, e sotto la menzogna della libertà ne dispone il controllo. Alla negazione totale dell’individualità, lo scrittore contrappone la potenza dell’ “io”, voce narrante del libro alternata con il “tu”, sua proiezione e sdoppiamento insieme alle numerose “lei” con le quali l’ “io” si scontra in un moto casuale e incontrollato senza riuscire mai a fondersi ma solo a sfiorarsi. “Non c’è niente di più falso del noi”– sostiene Xingjian – “Se dico noi sono confuso, non so quanto me sia contenuto in quel noi, non so quanto lui, proiezione di te e di me, o quanto di essi e di esse, semplice moltiplicazione di lui e di lei”.
La sua originale visione del mondo è riflessa nella struttura del romanzo che l’autore forza fino alla rottura, fino a rendere incerta la stessa definizione del genere. I personaggi, infatti, sono sostituiti dai pronomi personali mentre la trama scompare per lasciare il posto a un lungo dialogo dell’anima con se stessa, in un crescendo di interrogativi e speculazioni che spaziano dalla poetica al senso della storia o della religione. Xingjian, rifiutando lo schema classico dell’intreccio romanzesco, racconta attraverso l’ebbrezza della lingua, “l’uomo e la donna, l’amore, la passione, il sesso, la vita, la morte, l’anima, la gioia, la sofferenza della carne, l’impegno politico, il rifiuto della politica, l’impossibilità di fuggire la realtà, l’immaginazione, (…) il romanzo rivoluzionario che sovverte l’idolatria della letteratura, la rivoluzione del romanzo e la morte del romanzo”.
A fronte delle obiezioni di un critico ideale sulla irriducibilità della sua opera ai canoni letterari classici, lo scrittore replica con altre domande, valide quanto insolute: “L’essenza di un romanzo consiste nel raccontare una storia? O forse nel modo di raccontarla? Oppure non nel modo di raccontarle ma nel comportamento dello scrittore mentre la racconta?”. Al di là della dimensione onirica e filosofica, l’esperienza raccolta da Xingjian rappresenta un percorso reale da lui stesso compiuto dopo aver scoperto che il tumore diagnosticatogli è scomparso. Ma la macchia buia, ormai invisibile ai radar ospedalieri, non è svanita per lui che vuole riacciuffare quella traccia dell’anima rivelata per un istante e poi perduta. Così lo scrittore, rinnovato nello sguardo e nella sete di vita, si mette in cammino verso la Montagna dell’Anima (Lingshan), meta concreta e simbolica, verso il sud ribelle e le sue tradizioni ancestrali, le leggende e le superstizioni che il regime ha invano tentato di estirpare.
Attraverso la rievocazione delle testimonianze letterarie del passato intravediamo un paese sconosciuto e affascinante, dalla spiritualità raffinata che postula un legame profondo tra uomo e natura, più volte rispecchiato nelle parole dell’autore che si sente in uno stato di comunione panica con l’universo, in sintonia con lo spirito antico della Cina. Memorabile, a tal proposito, l’adagio taoista secondo cui “L’uomo segue le leggi della terra, la terra segue le leggi del cielo, il cielo segue le leggi del Tao, il Tao segue le leggi della natura”. Ed è proprio la bellezza e il valore di tale sapienza millenaria che Xinjiang cerca di recuperare mentre il culto del moderno e del progresso rischiano di distruggerlo per sempre sotto i colpi di una rivoluzione culturale che cancella vecchi miti e superstizioni solo per crearne altri, laddove gli uomini, sradicati e disorientati, brancolano nel buio di un nuovo dominio più sottile ma altrettanto spietato, il dominio di menti vuote e alla deriva.
Emblema di tale condizione è l’episodio riguardante un vecchio taoista che celebra per lo scrittore una cerimonia religiosa la cui origine affonda nella notte dei tempi, rischiando per questo di essere denunciato da suo figlio, funzionario del partito comunista. Del resto, lo stesso Xingjian ha subito i contraccolpi della cosiddetta rivoluzione culturale: da traduttore, quindi intellettuale, è stato costretto a lavorare nelle campagne e bruciare un’intera valigia di sue opere. Nonostante il premio Nobel per la letteratura i suoi libri non sono tradotti nel suo paese, la patria ingrata che ha lasciato poco prima di terminare il romanzo. Così questo lungo viaggio nella Cina profonda e antica appare quasi come il tentativo di raccogliere e condensare l’immagine della sua terra per conservarla nel lungo gelo dell’esilio, per proteggerla e perpetuarla prima che sia definitivamente perduta, sbrindellata dalla barbarie del potere che cancella la storia nel tentativo di controllarla.
Eppure, la scure del dominio e dell’ignoranza non potranno infrangere l’incanto dei canti antichi dei vecchi pescatori che traghettano i viandanti sulle rive dei fiumi né la meraviglia dei paesaggi innevati o di una natura parlante che ammutolisce lo spettatore e ne rinfranca il cuore svilito dallo scempio della furia e della bestialità umana. Tuttavia, a parziale riscatto di tanta violenza, Xingjian ci ricorda che ha accenti umani la voce dell’anima che tale bellezza contempla e descrive e di cui non può mai dirsi paga: “Continui ad arrampicarti e ogni volta che, stremato stai per raggiungere la fine ti dici che è l’ultima volta. In vetta, calmata l’eccitazione, sei di nuovo deluso. Col venir meno della stanchezza cresce l’insoddisfazione. Poi volgi lo sguardo ai crinali sfocati all’orizzonte e ti riprende la voglia. Perdi interesse per le montagne già conquistate, ma senti che sulle altre potrai trovare sorprese. Quando però arrivi sull’ennesimo picco non trovi le meraviglie che ti aspettavi. Anche lì regna solitario il vento”. Il lungo percorso dell’anima errante descritto dall’autore non è privo di incertezze e di insidie, e ad ammonire il viandante smarrito è un vecchio saggio fermo sulla riva di un fiume:“la strada è giusta, è colui che la percorre a sbagliare”.
A lungo Xingjian si interroga sulle sue parole senza trovarvi un senso, cercando conforto in un antico adagio: “L’essere, come il non essere, va e viene all’infinito, non rimanere in riva al fiume al soffio gelido del vento”. Controversa, d’altronde, è anche la riflessione su Dio che lo scrittore immagina di incontrare alla fine del suo viaggio sotto forma di rana: “Non so dove si trovi il mio corpo in questo momento, ignoro da dove venga questo frammento di paradiso, esploro con lo sguardo intorno a me. Non so di non capire nulla, sono convinto anzi di capire tutto. Le cose avvengono a mia insaputa e c’è sempre un occhio misterioso. Non capendo posso solo fingere di capire. Nulla mi è chiaro in realtà, nulla io capisco. E’ così”. Come l’autore, al termine del suo non – romanzo, il lettore non sa nulla di più sull’anima. Eppure, chiuso il libro, non può fare a meno di avvertire qualcosa, forse un muscolo sconosciuto che comincia a svegliarsi, guardare il mondo e cantare con la cadenza e l’incanto dell’anima. E’ questo il cammino impervio e affascinante a cui Xingjian ci chiama, un cammino che si percorre solo inseguendo quella voce oscura e misteriosa che viene da dentro di noi, una voce che tutti abbiamo ma che raramente ascoltiamo. E non importa che la definiate demone, anima o umanità o con qualsiasi altro nome difficile e bellissimo. L’importante, ci dice Xingjian, è intraprendere il viaggio, il viaggio dell’anima.