“La Merda”, monologo in purezza

Sul monologo teatrale La Merda, di Cristian Ceresoli

 

“L’escremento, finché è nel corpo, è accettato: non è separato dall’unità del microcosmo; isolato spaventa e ripugna, per l’odore di anima denudata e anonima che esala”

Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo

 

La Merda è una teoria dell’espulsione. La diagnosi di tutti i mali assorbiti da un’indigestione civile, lunga più di un secolo, dentro il metabolismo di un corpo reale, forse del corpo reale, rimasto in vita ad assistere al suo dramma organico.

Scritto da Cristian Ceresoli e interpretato da Silvia Gallerano, La Merda è un monologo che ha in sé tante voci, in pena di una delegazione spirituale a uno scalare polifonico di revisioni e di pentimenti, di sollecitazioni e di adesioni, dentro e fuori il margine che separa il tempo vissuto e quello imposto da violazioni educazionali individuali e collettive. La protagonista (Silvia Gallerano) partecipa a un provino per lo spot di una pubblicità progresso sui 150 anni dell’Unità d’Italia. L’occasione si rivela come l’opportunità improvvisa di revisionare tutte le più ambigue sovrastrutture presso le quali è iscritta l’anagrafe di oltre mezzo secolo, quello del dopoguerra che, come già analizzato da Marcuse dal punto di vista globale, rispetto agli interventi brutali della dimensione estetica presso la quale si dirige la deriva dell’umanità, come profetizzato da Pasolini davanti agli orrori imposti con “dolcezza” dal potere, fino alle riflessioni più rassegnate di una parte della stessa letteratura italiana (per esempio, i Troppi paradisi di Walter Siti), prescrive al soggetto “civile” le più ciniche somministrazioni consumistiche.

Le Cosce, il Cazzo, la Fama e l’Italia sono i segmenti temporali dettati da uno spartito apparentemente votato a una sinfonia caotica, ma, in fondo, perfettamente fedele alle cifre di un codice dell’ordine che è solo la sottile e indecifrabile ripetizione di un disordine governabile, quello tanto caro e indispensabile al potere. L’imbarazzo per le sue cosce corte e grasse e la perdita del padre rappresentano il “mancato” emotivo di una giovane donna che assume le sembianze della sua “parola”, attraverso la trasfigurazione di un corpo in equilibrio su un minuscolo spazio vitale, e, per questo, ancora più condannato alla trasfigurazione del suo verbo-maschera, molle, in dissoluzione, ma terribilmente in piena coscienza di sé. L’Unità d’Italia è l’elemento speculare affinché il processo verbale individui un luogo e un tempo, fornendo delle coordinate spazio-temporali che, nella più frenetica delle necessità, piantano un chiodo dove appendere una bandiera della quale, in fondo, il verbo-maschera vorrebbe liberarsi, a differenza dell’epilogo, completamente opposto, riservato al corpo. Il Dio-Patria-Famiglia cade a pezzi nel detto, ma domina nel fatto.

La parola de “La Merda” proviene da una detenzione in stato di libertà vigilata, messa al mondo per esplorare una realtà confinata dentro le corruzioni storiche e politiche, dentro le sommosse artificiali delle contestazioni strumentali, attraverso il transito inquieto per i filtraggi retorici che fondano sulla condivisione di modelli omologanti le frazioni normative della vita. Il dover fare, il dover dire, il dover aderire, il dover partecipare, il dover dovere, in direzione obbligata verso un baratro destinato a rivelare il fallimento dettato dall’assoluta mancanza di coincidenza tra il dovuto e il voluto, che, malgrado i più tormentati e angosciati tentativi, restano dentro la loro inevitabile condanna. Le Cosce, il Cazzo e la Fama sono tre figure di Stato, come il padre, il provino, la pubblicità e la bandiera. Allora la giovane donna si ritrova a doversi nutrire di alimenti elaborati all’ombra di una catena di montaggio conserviera, al servizio di una macchina, della Macchina, che da decenni sperimenta con successo i veleni da far deglutire a chiunque voglia fare ingresso nel labirinto delle vanità.

La sofferenza bulimica della protagonista misura il suo grado di “resistenza”, fino all’impossibilità di respingere le violazioni delle incursioni consumistiche. Trattenerle è impossibile. Ecco che si attiva il meccanismo dell’espulsione, salvifico ma umiliante, perché segnato da una liberazione momentanea, dovendo cedere alla forza che impone l’obbligo di nutrirsene nuovamente.

La fine diventa destinazione del riciclo di un altro inizio, ancora più corrotto di quello originario. Forse, dando ragione a Céline, a sostegno di quell’idea per la quale l’odore della merda ci dà la più efficace dimensione delle tensioni esistenziali (“Ce qui guide encore le mieux, c’est l’odeur de la merde”, Chi ancora conduce al meglio, è l’odore della merda) e ad Artaud (“Là dove si sente la merda si sente l’essere”), viene da riflettere sull’ipotesi che le profezie non smaltiscono, ma pronosticano lo smaltimento. Anche la recensione teatrale, nella sua più vile e incognita funzione visitatrice e ripetitiva, si accartoccia per finire nell’impasto dell’espulsione finale. Sono i diritti e i doveri dell’appartenuto, ai quali nessuno può sfuggire. Le formule irrinunciabili per ogni composizione storica costituita. Un attimo dopo arriva il pentimento di non avere intuito per tempo l’inganno. È il ritardo fisiologico dell’intelligenza. Non si dispone di ottave sufficienti per coprire le urla di fondo.

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