Per un teatro del silenzio e del buio: i conflitti dell’inconscio ne “La città morta” di D’Annunzio

di Andrea Corona

La città morta, scritto nel 1896 e rappresentato per la prima volta in Italia nel 1901, costituisce il primo lavoro drammaturgico di Gabriele D’Annunzio. Il testo nasce a seguito di un viaggio in Grecia compiuto dall’autore nel 1895 e nel corso del quale egli verrà a conoscenza degli scavi di Micene e delle sepolture degli Atridi, portate di recente alla luce grazie ai ritrovamenti archeologici di Schliemann. Da quest’esperienza lo scrittore abruzzese trarrà due considerazioni fondamentali: l’allontanamento della tragedia dalla contemporaneità, la perdita del senso dei conflitti eroici e la necessità di attingere al tempo dei miti greci. Inoltre, è tuttavia possibile un teatro tragico che non abbandoni completamente le angosce della contemporaneità, posto che la scena abbia luogo in un’epoca non troppo definita e i personaggi agiscano in ambienti che siano antichi e moderni al contempo (cfr. M. Corsi, Le prime rappresentazioni dannunziane, Milano, Fratelli Treves Editori 1928, pp. 12-14).

Poi, come acclarato in una lettera del 13 ottobre 1896 indirizzata all’amico Angelo Conti, con la stesura de La città morta il proposito di D’Annunzio era quello di chiudere nello stesso cerchio le anime dei contemporanei e quelle di coloro che vissero nei millenni remoti (cfr. G. d’Annunzio, Lettere ad Angelo Conti, in «Nuova Antologia», 401, 1939, pp. 10-32).

Questa premessa serve a far capire che La città morta nasce da un’ambizione neoclassica dell’autore, unitamente al desiderio di far rivivere miti e personaggi dell’antichità. Come quelli dell’Antigone di Sofocle, tragedia che la protagonista Bianca Maria legge all’inizio dell’opera, e le cui citazioni, insieme a quelle dell’Orestiade di Eschilo, scandiscono le varie sequenze dell’azione. La vicenda, che ha luogo sullo sfondo delle tombe degli Atridi, è permeata da un alone di morte che incombe sin dalla prima scena del primo atto sulle due coppie protagoniste.

Tragedia in cinque atti in prosa, La città morta narra la storia di un poeta (Alessandro) pietoso della moglie cieca (Anna), ma segretamente innamorato di un’altra donna (Bianca Maria). La fanciulla, che lo ricambia di passione, è però dilaniata dal senso di colpa e dal rimorso verso la cieca. Parallelamente, il fratello della ragazza (Leonardo), esploratore di tombe e migliore amico del poeta, è a sua volta afflitto da una profonda angoscia: ossessionato da un incestuoso desiderio nei confronti della consanguinea, arriverà infine a macchiarsi di un orribile delitto.

Se il motivo conduttore della tragedia è dato dal legame passionale che unisce Leonardo alla sorella Bianca Maria, la trama è altresì arricchita dall’amore che lo stesso Alessandro mostra nei confronti della medesima donna e dalla quale, però, è stavolta ricambiato. E, come non ha mancato di rilevare il critico Guido Nicastro, «Dalla gelosia che Leonardo prova per questa relazione, oltre che dalla vergogna del desiderio incestuoso, nasce in lui la decisione di uccidere la sorella per preservarne la purezza e insieme per redimere se stesso dalla passione infausta» (G. Nicastro, Il poeta e la scena. Saggio sul teatro di d’Annunzio, Catania, Prisma 1988, p. 48).

Se la prima tragedia di Gabriele D’Annunzio trae origine da un sogno angoscioso, dall’attrazione e insieme dall’orrore dell’incesto, secondo Ruggero Jacobbi sentimenti incestuosi sono da registrarsi non soltanto nel legame fraterno tra Leonardo e Bianca Maria, ma anche nella relazione tra Alessandro e la consorte Anna, la quale rivestirebbe il ruolo di una moglie-madre (cfr. R. Jacobbi, Il teatro di D’Annunzio oggi, in Quaderni del Vittoriale, novembre-dicembre 1980, pp. 8-24; e cfr. V. Roda, Il soggetto centrifugo. Note sui personaggi femminili del D’Annunzio, Bologna, Patron Editore 1989).

La tragedia greca offre così a d’Annunzio quella forma drammatica in cui trovano espressione i conflitti familiari, e che egli rielabora per dar vita, nel suo teatro, a un intricato insieme di esperienze conturbanti e perturbanti: perché i fantasmi del passato possano calcare la scena, infatti, bisogna ascoltare gli echi provenienti dagli antichi miti della Grecia.

Ancora Nicastro, a questo proposito, ravvisa come Bianca Maria, che in piedi addossata a una colonna e vestita di una tunica simile a un peplo legge l’Antigone, sia il segno evidente di una poetica teatrale, poiché da quel momento la vicenda che si svolgerà sulla scena non sarà altro che una rilettura molto personale dei temi enunciati in quella tragedia, su cui si sovrappongono, come in una fotografia un po’ sfocata, immagini di altri ricordi e altre letture (cfr. G. Nicastro, Il poeta e la scena. Saggio sul teatro di D’Annunzio, pp. 48-49). Ed è effettivamente difficile non sottoscrivere questa chiave di lettura, perché se Bianca Maria è Antigone che per amore del fratello è pronta a sfidare la morte, Anna è la cieca Cassandra eschilea che ha il presentimento angoscioso delle sventure che stanno per accadere:

Non tremare! […] Io so quel che sogni, quel che soffri e quel che attendi… Tu segui devota il fratello che abita le rovine e fruga i sepolcri; ma tu non puoi rinunziare alla tua ora. Una forza imperiosa s’è levata dentro si te, a un tratto; e non t’è più possibile reprimerla. […] È necessario che tu le ceda (Bianca Maria nasconde la faccia nel grembo della cieca e rimane in tale atto tremando). Non tremare! […] Tu vedi quel che io non vedo. Io vedo quel che tu non vedi.

(G. d’Annunzio, La città morta, in Tragedie, sogni e misteri, volume I, Milano, Mondadori 1949, p. 113)

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