“Nessuna speranza nessuna paura”, il saggio di di Dario Torre

di Andrea Corona

È ormai noto che la forma stessa della classifica – classifica dei trend del giorno, classifica dei video più visti, delle news più cliccate, dei brani più ascoltati e così via – sia portatrice già di per sé di quel meccanismo di plugging, cioè di martellamento e ripetizione, che secondo Adorno, induce il fruitore a farsi incantare dall’inevitabile. Tuttavia, gli studi sulla popular music compiuti dal filosofo tedesco non potevano fare i conti con l’avvento del punk. A questo proposito, come scrive Dario Torre nel suo saggio Nessuna speranza nessuna paura. Il rock napoletano dagli anni ’80 ad oggi (Milena Edizioni, 128 pp., 12 euro):

«È stato il punk il genere che ha modificato completamente le coordinate. Il musicista, visto un tempo come icona preparatissima e inarrivabile, viene sconsacrato, diventando uno come tanti. L’estetica passa in secondo piano, così come la tecnica, che diventa spesso elemento quasi superfluo, perché chiunque può, con minimi rudimenti, salire su un palco e suonare, esprimendo se stesso ed avendo un rapporto diretto col pubblico, privo di barriere».

Non è un caso, e men che meno una pecca, dunque, se nel suo volume Torre non tratta del rap, del reggae o del country italiano, ma affronta esclusivamente quella scena new wave e metal (fino alle sue derive più anti-commerciali del trash, del grind e del death metal) che, attraverso gruppi come i Randagi, i Contropotere, gli Underage, gli Insofferenza, i Low Fi e i Von Masoch, componeva il panorama underground degli anni Ottanta a Napoli. Grave errore sarebbe tuttavia pensare che siamo, qui, dinanzi a un libro di storia: il territorio napoletano, tuttora teatro di aggregazioni artistiche, non di rado figlie di sentimenti di frustrazione, non ha mai smesso di far ricorso a un linguaggio musicale comune, soprattutto fra i giovani.

Dal passato remoto del vecchio centro sociale Tien a Ment, dove la connotazione politica era più marcata, al passato prossimo dello Slovenly, epico rock ‘n’ roll bar dei primi anni Duemila, i concerti rock, punk, indie, rockabilly, dark, metal non cessano comunque di proliferare e di manifestarsi. Certo, il contesto è mutato ma, oggi come allora, il carattere prevalentemente easy, viscerale, persino antiborghese delle performance artistico-musicali partenopee continua a farsi agente di quella “infezione semiotica” che Carmagnola e Ferraresi, nel loro volume sulle “merci di culto”, pongono alla base dei fenomeni cult. Fenomeni che, come delle cellule di micro-resistenza, sopravvivono all’interno dell’universo delle iper-merci contemporanee.

In conclusione, l’elemento che rende ai miei occhi straordinario il fenomeno del rock underground napoletano illustrato da Dario Torre consiste nella capacità dei nuovi gruppi di preservare (oltre che di perseverare) qualcosa di quell’universo da cui il presente è scaturito, in favore di una strana e ambigua energia, di un misto di piacere e malessere che lo sostiene. Un ossimoro, una voluptas dolendi, una pratica sado-masochista, un incubo soft; questo e altro calcano le scene underground a Napoli, in una giostra di suoni e colori dove il gioco è più simile al parossismo che al mero godimento.

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