Baci e morsi a una civiltà, “Il baciamano” di Santanelli secondo la Compagnia del Grimaldello
Su Il baciamano, opera teatrale tratta da un testo di Manlio Santanelli, rappresentata nel riadattamento della Compagnia teatrale del Grimaldello, diretta da Antonio Grimaldi.
La vicenda, ambientata nella Napoli della rivoluzione di fine Settecento, è ispirata agli episodi di cannibalismo che in quel periodo si registrarono in città.
Per un’epoca non c’è niente di peggio che rimuovere il desiderio dalle facoltà umane. Lo spazio di orrore condiviso da Janara (Anna Rita Vitolo) e dal giacobino (Vincenzo Albano) legato mani e piedi per finire nel menù della miseria piombata sulla Napoli che ha smesso da decenni di essere celestiale, è la regione dove i due protagonisti dell’opera scritta da Manlio Santanelli scoprono identità e destino.
La Napoli scelta dall’autore napoletano è la metropoli che la storia ha destinato a laboratorio dell’inferno. L’epilogo del Settecento napoletano parla chiaro. Napoli è il luogo dove dimora un demone burattinaio che ordina alle fiamme di muoversi a tempo del suo linguaggio. La città che non fa da sfondo, ma da sottofondo, nella scrittura di Santanelli, e più ancora nell’interpretazione della regia di Antonio Grimaldi, è l’urbe sublime e deforme che Giuseppe Campolieto, nel suo Masaniello, descrive come “un teatro alla rovescia, dove gli attori erano tanti e gli spettatori pochi. L’azione si basava sul ridicolo, sul goffo che si sprigionava dalla vista di uno straccione che si vestiva da signore, sulla rissa tra poveri affamati che si scannavano per raggiungere una ruota di pane o una forma di cacio. Il piacere di divertirsi alle spalle aveva questi risvolti di cinismo crudele. Si gettavano monete dalle carrozze o dalle finestre per godersi lo spettacolo di scontri furibondi, non di rado con tragiche conseguenze. Si lasciava che carri interi venissero saccheggiati, solo per vedere che tipo di accanimento metteva il bisogno addosso ai poveri della città. Il proletariato urbano era, nell’ottica dei privilegiati, un elemento naturale, un oggetto del vasto paesaggio, il concime umano di cui servirsi per le basse necessità”.
La città, avviata alla maledizione, nella seconda metà del Seicento aveva quintuplicato i suoi abitanti, erano stati innalzati palazzi che non si vedevano così alti nemmeno a Londra e a Parigi. Il sound souq generale insegnava la sua lingua all’apprendimento popolare. Era nata la modernità. A Napoli in largo anticipo. Il viceregno clericale era il suo fondo. I commercianti pronunciavano forte il “serra, serra” ogni volta che i mercati e le strade temevano un’insurrezione, un saccheggio o un’azione vandalica gratuita. Il battesimo dei “lazzari” era ormai iniziato.
Dentro l’antro di Janara e del “suo” giacobino i due protagonisti rispettano la regola del Pasto nudo di William Burroughs, “Il corpo sa in quali vene è possibile iniettare e trasferisce questa consapevolezza nei movimenti spontanei che si fanno preparandosi all’iniezione”. Nel dialogo verbale e corporeo tra Janara, lazzara, popolana, battezzata dal suo stesso genere di appartenenza, e il colto giacobino finito nella fame di una famiglia in cui quattro figli piccoli sono i chiodi di una croce dove un popolo intero è destinato a restare appeso, si realizza l’educazione al martirio, attraverso lo svelamento di segreti e di debolezze, di origini e di fedeltà politiche, di umano e di diabolico.
Janara è condannata come l’Asterione di Borges. Il suo coltello taglia per soddisfare la fame di suo marito e l’appetito di un interno familiare che pare condividere con altri interni le stesse necessità, fino alla fuga incontrollata fuori dai confini di casa, diretta al nodo collettivo di altre vite, di altre famiglie, nel reticolato amorale della “bocca dell’Ade”. Janara fonde il suo tormento con quello del giacobino. La lazzara “macellaia” vuole che il suo credito con la malasorte si estingua attraverso la simulazione dell’appagamento, della realizzazione del suo unico desiderio, quello del baciamano, simbolo dell’ossequio e della venerazione dovuti, secondo la tradizione nobiliare del tempo, alla figura femminile. Janara è una donna senza diritti, e non pretende di reclamarne alcuno, se non quello che non ha identità di genere e di sesso. Il sogno.
Il giacobino, prima di conoscere il suo destino, asseconda Janara nell’atto simulatorio, fidelizzando un pegno che nel do ut des li unirà nella violazione. I capricci del potere, le mischie affollate dalle sue pedine condotte alla follia e allo smarrimento di ogni dimensione morale, le astute e spietate strategie politiche del cardinale Ruffo, l’Illuminismo, adesso sono lontani, sempre più lontani. Janara e il giacobino fondano la loro evasione effimera e clandestina. I richiami alla realtà, le voci e i gemiti di sofferenza della filiazione popolare di cui si odono soltanto l’eco inquietante, il ritorno del marito ansioso del banchetto, diventano l’intorno della scoperta alla quale il giacobino sarà costretto. Prima di sapere se e come sarà divorato, il rivoluzionario scoprirà di essere entrato già a pezzi dentro la casa di Janara. Quanto a lui più caro è stato già divorato altrove. I desideri di entrambi sono stati a loro stessi vietati già prima del loro incontro. A Janara è stata sottratta l’opportunità alla grazia, seppellita insieme al diritto al desiderio. Al giacobino è stata preclusa la speranza di vedere realizzato il suo sogno politico. Religione e rivoluzione muoiono nella flagellazione ad opera di un potere che finge di interpretarle entrambe.
L’esperimento demoniaco è riuscito. I ruoli e le funzioni vengono rispettati. Ora e per sempre. Ancora oggi, ogni giorno Janara stacca un piccolo pezzo dal corpo del giacobino, condannata a scontare la sua pena al “pasto nudo”. Shakespeare ha raccomandato di “amarsi moderatamente”, ma per Janara e il giacobino il bacio non è altro che la sostituzione del brivido col chiodo. Quale atrocità tiene unite la mano e le labbra!