“L’alienato”, il romanzo di Vito Introna e Francesca Panzacchi
di Andrea Corona
«La lasciò scivolare sulla terra bagnata. Il corpo era inerte, i capelli arruffati, lo sguardo attonito di chi ha appena incontrato la morte»
Si apre così L’alienato, romanzo noir-distopico scritto a quattro mani da Vito Introna e Francesca Panzacchi. In quest’opera, capace di offrire molte suggestioni al lettore, l’incipit fa pensare a un giallo di provincia. E invece nella piccola e sonnolenta Castelbianco il vicequestore Alfredo Russo e la procuratrice Elsa Simi, fresca di nomina dopo un tirocinio a Monza, si trovano alle prese con incombenze ben diverse da qualche scazzottata da bar.
Quel che si staglia sullo sfondo, e che si manifesta gradualmente agli occhi del lettore, si disvela quale uno scenario di profonda crisi: l’omicida seriale, la cui identità è ben nota alle autorità, è un pezzo grosso che viene protetto dall’alto, dalle istituzioni stesse. Ma l’ispettore di polizia Vincenzo Altieri non ci sta, e decide di mettersi da solo sulle tracce del maniaco. La sua dedizione azionerà un meccanismo a spirale dal quale verranno a galla dei retroscena sempre più torbidi e inquietanti. E non solo per il destino di Castelbianco.
«Niente sarebbe più stato come prima, ormai giocavano a carte scoperte». Questa frase non vale solo per i due protagonisti del romanzo, ma anche per i due autori, i quali, come un abile prestigiatore che mostri alte le carte prima del suo numero di magia, non mancano di lasciare a bocca aperta il pubblico. Fuor di metafora, la bravura di Vito Introna e Francesca Panzacchi sta nel presentare dapprima dei “modelli attanziali”, cioè dei modelli di prevedibilità che facilitano la lettura delle azioni, salvo spiazzare di volta in volta il lettore andando in direzione opposta a quella imboccata. E, di fatti, è proprio grazie a schemi narrativi già noti che il tutto può diventare suscettibile di variazioni inventive. Ecco allora che il caparbio ispettore può grugnire come da copione in faccia ai suoi interlocutori, salvo poi, impensabilmente, improvvisamente, evitare di braccare l’assassino (e di farlo, però, in vista di un piano B…).
E la forza de L’alienato non si esaurisce nelle suggestioni horror piuttosto che fanta-politiche, o in quelle noir piuttosto che new weird; e neanche nella sua pur mirabile “architettura”. La vera forza dell’opera sta, a nostro avviso, nel sottotesto. In ciò, l’accoppiata Introna-Panzacchi è riuscita a scrivere un’opera sull’acquiescenza verso le atrocità, dove lassismo, cultura del sonno e auto-indulgenza la fanno da padrone, e dove chi chiede semplicemente giustizia si ritrova suo malgrado a ricoprire il ruolo del folle e dell’idealista, quando non dell’utopista.
«Tutto era immobile, paralizzato, senza colore e senza movimento. Cose e persone divennero indistinguibili». Questa frase de L’alienato, considerata in quest’ottica, può forse aiutarci a comprendere meglio lo stato d’animo di Winston Smith, il protagonista di 1984, allorquando Orwell ci spiega che «Lo colpì il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale senso d’insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto, quell’apatia incolore».
Concludiamo dicendo, in calce, che è stato probabilmente per aver affrontato dei temi impegnati (si vedano i riferimenti alla crisi morale, oltre che economica, dei nostri tempi) unitamente a dei richiami alla distopia, che questo romanzo, pubblicato nella Collana di narrativa contemporanea della Milena Edizioni, si è aggiudicato il Primo Premio della XIV Edizione del Concorso Letterario Nazionale “Terzo Millennio”.