Di Grecia ce ne sono molte. La prima siamo tutti noi
Ora che il mondo, o una parte di esso, aderisce con effimero fervore alle istanze generali provenienti da echi lontane di cui, prima ammissione, non si conoscono i fatti e le origini, tramite frettolosi adozioni di slogan e ciclostili da social network, in luoghi con urgenze ancora più antiche la storia continua a passare e nessuno se ne accorge.
Prima che l’emergenza greca, e qui l’umano decade per l’ennesima volta, facesse capolino tra i fori metropolitani, reali e virtuali, di quest’epoca terzo millenaria, il mondo – chiedo perdono, lo chiederò spesso, per l’abuso di parole già in entità e numero sopra la mia insignificante statura – da secoli assiste, sereno e con lo scandalo a innesco, ai soprusi e alle violazioni dell’economia, della politica, dei contingenti militari, a danno di molti paesi africani, asiatici e sudamericani, oltre ai paesi europei dove la guerra e le invasioni sono ancora all’ordine del giorno. Anche in Africa esiste una moneta unica (il franco CFA), che vincola quattordici paesi e che fissa il cambio alla divisa europea, all’euro. Per dubbi, chiedere ai francesi. “Garantiscono” loro.
Fuori da ogni retorica, sono milioni, centinaia di milioni, le vittime di questi, ormai troppi, decenni, secoli, che hanno gerarchizzato la distribuzione del benessere attraverso la costruzione di categorie fissate a distinguere l’uomo dall’uomo, il bambino dal bambino, l’animale dall’animale, la natura dalla natura. L’unica evoluzione riuscita all’uomo – chiedo ancora perdono per l’ennesimo abuso – è quella delle azioni utili al proprio riparo. Come nascondersi, come prosperarvi, come abituarsi, come oscurarsi, come smarrirsi, come identificarsi, come apparirvi, come aggirarsi, come muoversi, come ignorarsi, dentro questo meccanica che ha formulato una sorta di equazione dimensionale della sensibilità, in un Us and them – la canzone dei Pink Floyd potrebbe fungere da manifesto – multidirezionale.
I ranghi restano serrati a ridosso di un grande illusionismo, che, attraverso l’incanto mediatico, fa passare per indispensabile e assoluta una moneta unica escogitata – non adesso, non pochi anni fa, non venti anni fa, ma prima, molto prima che la più spicciola manualistica da educazione civica imponesse la sua patetica retorica alla pubblica opinione – per salvaguardare il capitalismo, e nel peggiore dei modi. La preoccupazione, ancora oggi, davanti a una crisi, non è la crisi, ma l’effetto che essa potrebbe determinare nell’interno politico ed economico di un altro paese. Non si può desiderare una civiltà basata sui dogmi, e non si possono contestare i sistemi fondati su base religiosa – in questo momento gli esempi non mancano – e poi procedere a un genere di affidavit che promette e mantiene fedeltà a congegni economici menzogneri e propagandistici. È “talebanismo” anche questo, comprese le conseguenze drammatiche che questo genere di fedeltà comporta.
L’unico dato che, forse, restituisce a questa desolazione un qualche tipo di verifica, è che la salvaguardia delle consorterie su vasta scala rappresenta l’animo miserevole di quelle individuali, grandi e piccole. Non credo sia superfluo ribadire quanto già scritto prima. Rifugiarsi, scovare luoghi di riparo, questa è l’azione che l’europeo ha saputo sviluppare, nella più evidente e paradossale allegoria dell’isolamento.
Nulla ci è chiaro, in questo clima di emergenze e proclami, disorientato, isterico, dove a volte ho l’impressione che si circoli e ci si frequenti da bendati. Non abbiamo soluzioni. Solo istanze, solo denunce, solo grida di allarmi. Nemmeno la classe intellettuale – qui mi scuso, invece, per l’uso dell’espressione – è in grado di offrirne una, di soluzione. Forse si consolida con più veritiera ferocia l’atteggiamento intellettuale di quei pensatori, di quegli scrittori, che, impavidi nell’affronto all’etichetta superficiale e colma di pregiudizi nei loro confronti, hanno sfidato il rischio di un’inedia apparente, denunciando le più inquietanti emergenze attraverso il distacco, oggi, chissà, nient’altro che misura più lucida e precisa della distanza tra l’uomo e altri uomini, tra altri uomini e le loro incoscienti procreazioni morali. S’interroghi sulla valenza delle proprie affrettate conclusioni chiunque ravvisi affanno e stanchezza in chi ha deposto fedi e dottrine attraverso le più sofferte, quanto sprezzanti e irrevocabili abiure.
L’Europa? Non è l’alba che monta sopra gli edifici e le piazze silenziose delle grandi città. Se essa, ammesso che se ne possa parlare, sia mai esistita, sarà stata avvertita durante le due guerre, o prima ancora a cavallo delle più importanti rivoluzioni europee, o prima ancora, molto prima, fino ai tempi delle imprese di Temistocle, quando, chi le ha compiute, ne ha ignorati gli effetti. Il durante europeo, come frangente sentimentale autentico, semmai qualcuno volesse sentirne la necessità di ricercarlo, andrebbe decifrato tra i codici genetici della letteratura (come da sempre sottolineato dalla critica storica), tra la fuga e l’esilio, tra i dipinti e le architetture, e non tra le carte e le ratifiche.
Ecco cosa scrive Charles Dickens ad incipit del suo romanzo Le due città (ambientato tra Parigi e Londra durante la Rivoluzione francese e il successivo periodo del Terrore) nel libro primo, intitolato “Resuscitato”: “Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità; il periodo della luce, e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi. Eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte – a farla breve, gli anni erano così simili ai nostri, che alcuni che li conoscevano così profondamente sostenevano che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo”.
E Melville non ha di certo ambientato a Wall Street il suo Bartleby per annunciare chissà quali timori sui crolli della borsa, ignaro che dopo qualcuno avrebbe piazzato la statua di un toro, proprio a Wall Street, in una delle strade più famose del mondo. Lo stesso animale in cui si trasformò Zeus per rapire Europa.
Bartleby è nato per testimoniare la sofferenza traversa, per porsi di spalle, per farsi custode del rifiuto pronunciato a nome di tutti i rifiutati, di una folla sconfinata della quale neanche il caos ha tenuto conto, che non ha potuto prendere parte alla miserevole epopea del riparo collettivo, a dispetto di ogni mano tesa fuori dal perimetro di salvezza. Bartleby, che non è europeo, agli europei potrebbe insegnare l’unica risposta possibile. “Preferirei di no”. Ma ce ne vuole di coraggio per dire Preferirei di no. Adesso alle spalle dello scrivano più celebre della letteratura non si sommano le richieste pedanti e continue del suo principale, ma le codardie e le convenienze di un’intera civiltà. Quelle su cui nascono le economie.