Il Pio Monte di Napoli, Caravaggio e l’ottava opera di Misericordia

In via dei Tribunali, lungo il decumano maggiore, in corrispondenza di piazza Riario Sforza, filosofo e arcivescovo di Napoli che, nel 1869, durante gli anni dello scontro tra il papato e la monarchia sabauda, si rifiutò di benedire il neonato re di Napoli, quello che sarebbe diventato Vittorio Emanuele III, e di presenziare al Te Deum nella storica basilica di San Lorenzo, approssimativamente davanti all’obelisco di San Gennaro, vi è l’ingresso del Pio Monte della Misericordia, il complesso monumentale all’interno dell’edificio di una delle più importanti istituzioni benefiche napoletane.

Il Pio Monte viene fondato nel 1602 (gli anni della Controriforma) da sette nobili napoletani (già notoriamente frequentatori dell’Ospedale degli incurabili, testimonianza altrettanto importante delle arti sanitarie napoletane), su progetto, poi ampliato mezzo secolo dopo, dell’architetto Francesco Antonio Picchiatti, con lo scopo di esercitare le sette opere di misericordia corporali. Ancora oggi, grazie alla generosità degli associati, il Pio Monte prosegue la sua attività filantropica dedicandosi alla raccolta di fondi riservati a persone in particolari stati di difficoltà (sono tante le associazioni e gli enti che beneficiano dell’appoggio del Pio Monte).

L’edificio nasconde al suo interno la chiesa barocca, a pianta centrale, dove è possibile ammirare la celebre tela di Caravaggio dedicata proprio alle Opere di Misericordia. All’interno della chiesa si trovano altri capolavori di pittura e di scultura, compiuti da importanti artisti del sedicesimo, diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo. La liberazione di San Pietro, di Battistello Caracciolo, esponente illustre del Naturalismo napoletano, le statue allegoriche di Andrea Falcone, La deposizione, di Luca Giordano (soprannominato Luca “fa presto”, per via della sua solerzia nella realizzazione dei dipinti), sono alcune delle opere che “tengono compagnia” alla tela di Michelangelo Merisi, eseguita dal pittore lombardo durante il suo primo periodo napoletano, per un corrispettivo di 400 ducati, una cifra notevole, se si pensa che il soprintendente del Pio Monte ne guadagnava 24 all’anno.

La Napoli che ospita Caravaggio è una città dalle vicende controverse, caratterizzata da un grande fermento culturale, capace di attirare le più fervide intelligenze dell’arte, della letteratura, delle scienze e degli studi tecnologici, ma, allo stesso tempo, sottoposta alla continua e faticosa resistenza a un’economia dalla quale la corona spagnola aveva cercato di attingere il più possibile per finanziare le guerre contro le altre potenze spagnole. Napoli, città rifugio per Michelangelo Merisi, appare al pittore come una fonte di suggestioni, nella sua quotidianità “disperatamente popolare”, come la definisce Roberto Longhi.

Caravaggio esegue il suo dipinto a olio su tela ispirandosi alle sette opere di misericordia corporali, distinte, quindi, da quelle spirituali. Dar da mangiare agli affamati, Dar da bere agli assetati, Vestire gli ignudi, Alloggiare i pellegrini, Visitare gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti sono le sette misericordie rappresentate da Merisi nella sua celebre tela. Ai piedi della Vergine, sorretta da una base aerea di angeli (la “Voltatella”, come da definizione di Longhi), le sette misericordie si manifestano in tutta la loro simbologia religiosa e letteraria. Non mancano le citazioni. Su tutte, forse la più emozionante, quella dell’episodio di Cimone e di Pero.

La leggenda narra del vecchio Cimone rinchiuso in carcere e condannato a morire di fame. La figlia Pero vorrebbe salvarlo ma non sa come fare. Ottenuto il permesso di visitarlo, a patto che non porti con sé cibo, Pero riesce a nutrire il padre allattandolo, essendo la donna reduce da un parto recente. Cimone riesce così a sopravvivere, destando, però, sospetto al carceriere che, non notando alcun deperimento, spia la donna e, accortosi dell’inganno, lo denuncia alle autorità. Queste, impietosite, decidono di liberare il prigioniero. Così, una sorta di inversa filiazione catechizza la durezza della legge. In un sol quadro sono espressi i “comandamenti” discreti dell’assistenza umana, senza forma alcuna di imposizione, attraverso la potenza del bisbiglio e del sussurro. Oggi, a distanza di quattro secoli, il quadro di Caravaggio riesce da solo a farsi manifesto di un umanesimo disperato, in perpetua e inconsolabile tensione, che se ne sta lì, irraggiungibile, e che, nella sua lucida coscienza, sembra quasi perduto.

Lasciata la chiesa e proseguendo al primo piano dell’edificio, prima dell’atrio, è possibile accedere alle sale della grande Quadreria, dove sono esposti i dipinti e i bozzetti di Francesco De Mura, grande rappresentante del Settecento napoletano, oltre che le opere di noti caravaggisti e altri rappresentanti della pittura napoletana, dal ‘500 all’800. Luca Giordano, Salvator Rosa, Massimo Stanzione, Jusepe de Ribera (detto lo “Spagnoletto”) sono le firme di alcune delle testimonianze custodite nelle stanze dell’appartamento del Pio Monte.

Oltre ai dipinti e ai bozzetti, alcuni inediti rispetto alla tradizione del tempo, nel salone d’ingresso, nelle due anticamere, nelle sale del palazzo (quelle del Soprintendente, del Governo, del Corretto e di molte altre), oltre alle collezioni di sculture, di oggetti, di paramenti e di arredi, nel primo e nel secondo passetto sono esposti, in mezzo alle tele di Salvator Rosa, di Angelo Maria Costa, di Antoon Sminck Plitoo e di altri artisti, alcuni quadri di autori ignoti, in una sporadica alternanza di notturni raffiguranti soggetti solitari o, come nel secondo passetto, delle scene del cavaspine e della seduzione.

Nella tradizione artistica l’elemento dell’ignoto rappresenta la trasversalità malinconica del merito privo di un riconoscimento. L’identità creativa isola l’opera orfana e la restituisce a una parziale impossibilità di collocazione e di assegnazione. A Napoli anche la musica e la letteratura sono piene di anonimati. Alcune delle più belle canzoni classiche, alcuni testi narrativi e poetici, vivono, nonostante la gloria e la bellezza eterna del loro valore, il freddo confino di questo orfanotrofio immaginario. Non sempre è possibile stabilire se un’opera d’arte sia stata realizzata in città o altrove, così come, a volte, diventa difficile stabilirne persino il periodo. Basti la loro bellezza, sì, ma, se ne I miserabili Victor Hugo definisce la coscienza come la bussola dell’ignoto, sia pur quest’ultimo, nel nostro caso, relegato alla mancanza di identità, non si trascuri l’ottava opera di misericordia: soffermarsi a ringraziare chi non può essere ringraziato. Se passate al Pio Monte, tenetelo a mente.

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