Venezia 72, salvare l’arte per salvare noi stessi

C’è forse un filo rosso che lega l’evento di pre-apertura della Mostra del Cinema di Venezia, dedicato a Orson Welles, con il più grande (sinora) film del Concorso, lo strepitoso Francofonia di Aleksandr Sokurov, che si conferma uno dei massimi registi viventi: l’importanza irrinunciabile per la nostra esistenza delle opere d’arte.

La serata del primo settembre, infatti, è stata la celebrazione del talento di due grandi artisti: il compositore Angelo Francesco Lavagnino e il regista di Quarto potere, che si è avvalso in più di una occasione della collaborazione del musicista italiano. La serata si è aperta con l’esecuzione dal vivo, da parte dell’Orchestra Classica di Alessandria, della partitura scritta da Lavagnino per Il mercante di Venezia, il film che Orson Welles girò nel 1969 per la televisione e che, come numerosi altri progetti del regista americano, rimase poi incompiuto. Tuttavia, grazie al ritrovamento di nuovi materiali da parte dell’Associazione “Cinemazero” di Pordenone e alla scoperta della sceneggiatura originale nell’Università del Michigan, è stato possibile vedere alcune scene del film, in cui Welles veste i panni dell’ebreo Shylock, per un totale di 35 minuti, con l’aggiunta di una voce off a copertura di alcuni dialoghi privi di audio.

Poca cosa, tutto sommato, verrebbe da dire e invece chi scrive si sente di plaudire ad un’operazione che, per quanto imperfetta e qua e là discutibile, dimostra l’attaccamento verso l’arte di chi si occupa, per amore o per mestiere, della conservazione e della preservazione del patrimonio audiovisivo e cinematografico.

Questo amore per le più nobili espressioni dell’animo umano, questa sorta di razionale feticismo è il nucleo centrale del nuovo capolavoro di Sokurov che racconta la storia di due uomini eccezionali: il direttore del Museo del Louvre Jacques Jaujard e l’ufficiale di occupazione nazista Franziskus Wollf-Metternich che, nei giorni terribili del secondo conflitto mondiale, salveranno dalla possibile distruzione la maggior parte dei capolavori del grande museo parigino, trasportandoli in luoghi sicuri, in uno dei rarissimi casi in cui la ragion di stato e la conservazione e la salvezza dell’arte coincidono. Il maestro russo, appassionato di musei, già nel 2002 aveva girato Arca russa, ambientato all’interno dell’Hermitage di San Pietroburgo. In questo suo nuovo film, egli descrive l’istituzione museale come insostituibile luogo in cui raccogliere le testimonianze delle culture del passato, necessarie alla migliore comprensione di noi stessi. I musei non sono luoghi che riuniscono oggetti inanimati o impagliati: sono vivi luoghi dell’anima che conservano le tracce della società civile, della quale forniscono l’immagine migliore e più duratura.

“Che cosa sarei io oggi se non potessi vedere gli occhi, lo sguardo degli uomini del che mi hanno preceduto?” si chiede il regista osservando i ritratti custoditi all’interno del Louvre, al cui interno trovano spazio anche i fantasmi di Napoleone e quello di Marianne, la protagonista della tela La libertà che guida il popolo, capolavoro di Eugène Delacroix. In questo senso, il pensiero non può non andare ai recenti scempi compiuti dall’ISIS sul patrimonio artistico siriano rendendo Francofonia un film necessario e struggente, straordinaria opera di resistenza, che omaggia l’arte e coloro che lottano per difenderla. Per capire l’importanza di questo supremo gesto umano, il regista immagina se stesso in dialogo via Skype con un Amico immaginario che si trova a bordo di una nave che trasporta un’importante collezione di opere d’arte e che si trova ad affrontare la tempesta: per farci comprendere appieno l’importanza del salvataggio compiuto da Jaujard e Metternich durante la Seconda Guerra Mondiale, il regista sottopone se stesso e lo spettatore a questo trauma immaginario, a questo black-out nella storia dello spirito umano.

L’immagine delle opere d’arte disperse per sempre nel mare aperto ci aiutano a capire quanto siamo fortunati a poterle ammirare quelle opere, create da mani che, come possiamo ascoltare nel soliloquio del regista che attraversa il film dall’inizio alla fine, “sono più vive dello spirito, hanno creato la forma prima del pensiero”.

Tra le altre visioni di una kermesse che sinora non ha particolarmente brillato, impossibile non citare In Jackson Heights (Fuori Concorso), il nuovo documentario di Frederick Wiseman, che descrive con la consueta precisione la vita e i problemi all’interno di questo quartiere di New York, il luogo più multietnico e multiculturale del pianeta. Molto deludente, invece, la prima opera presentata in Concorso, Beasts of No Nation di Cary Fukunaga, film sui bambini-soldato in Africa che abbonda di immagini di scioccante violenza ma appare un’operazione ambigua e parziale che ancora una volta mostra solo la punta del mostruoso iceberg del mondo globalizzato. Senza infamia e con qualche lode il decoroso Spotlight di Tom McCarthy, anch’esso Fuori Concorso, film di denuncia contro i crimini sessuali compiuti dalla Chiesa Cattolica e scoperti grazie al lavoro dei giornalisti del quotidiano che dà il titolo al film.

Gelo (anche) in sala invece per il modesto Everest di Baltasar Kormákur, film ad alto budget sul tentativo di alcuni valorosi scalatori di raggiungere la cima più alta del mondo (nelle sale italiane dal 24 settembre) che, dopo una prima mezz’ora accettabile, naufraga nel mare delle convenzioni. Infine, tra le cose da salvare, il teso e potente Un monstruo de mil cabezas (Orizzonti) di Rodrigo Plà e la riproposizione del bellissimo Orphans, folgorante esordio di Peter Mullan che nel 1998 trionfò alla Settimana della Critica, sezione autonoma della Mostra del Cinema, che festeggia quest’anno il trentesimo anno dalla sua creazione.

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