Gerardo Scala, l’attore dell’allerta ironica
Se Caligola, parlando di Seneca, lo ha definito un “harena sine calce” (sabbia senza calce), perché, a suo avviso, era un pensatore che non badava al sodo, quando a teatro lo vidi interpretato da Gerardo Scala, nella versione secondo Beppe Barra, la sagoma bianca del filosofo di Cordoba in quell’occasione riuscì a rompere gli argini dell’inafferrabilità formale per giungere, disincantata e diretta, alla percezione ironica dell’impianto, grottesco e precario, dei rapporti tra il potere e l’intelligenza contestatrice. Un pretesto, resti solo un pretesto, per ricordare quanto un attore come Gerardo Scala sia stato in grado di rappresentare l’anima pragmatica di una recitazione votata al recupero del tempo, fino al suo totale annullamento, e con la regola dell’eliminazione di ogni gravame superfluo.
Gerardo Scala, che ha fatto in tempo a nascere nel decennio numero quattro del Novecento, da quelle generazioni funestate da ogni cosa, in un ’49 napoletano con ancora la guerra nel cuore e l’incertezza di un futuro che, per dirla proprio alla maniera dell’attore, avrebbe affrontato un non sappiamo ancora che succederà, ma qualcosa dovrà pur succedere. Nel 1968 Gerardo Scala, all’età di 18 anni, si classifica al primo posto del concorso presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, a Roma, in ex aequo con una giovanissima Daria Nicolodi, attrice simbolo dei film di Dario Argento. In Accademia l’attore napoletano avrà come maestro Orazio Costa Giovangigli, teorico e regista considerato tra i massimi esponenti della pedagogia teatrale, riferimento per tanti grandi attori del Novecento italiano. Non solo, il giovane Scala apprenderà da Sergio Tofano, da Alessandro d’Amico e da un altrettanto giovane Luca Ronconi, allora non ancora consacrato nel panorama teatrale nazionale.
Il principio di carriera di Gerardo Scala inizia l’attore a importanti partecipazioni, in un crescendo di collaborazioni e di interpretazioni che lo definiscono in ruoli di caratterista sì, ma di “spalla” unica, dotata di un’originalità in dote a pochi attori. Nel coro de Il gran teatro del mondo, di Pedro Calderòn de la Barca, della regia di Andrea Camilleri, nel ruolo di Tisbe, nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, sotto la direzione di Orazio Costa, sono alcune delle esperienze che lo formano durante i primi anni di Accademia, fino alla partecipazione in Nostra Signora dei Turchi, nel 1972, spettacolo che vede il debutto di Carmelo Bene. Nei primi anni settanta entra in contatto con molti attori emergenti di quel periodo. Gian Maria Volontè, col quale condivide anche esperienze politiche all’interno dell’Accademia stessa, Anna Teresa Rossini, e ritrovandosi coi vecchi compagni di studi, Michele Placido e Armando Pugliese.
Lavorare con Pugliese gli consente di iniziare la sua lunga esperienza nel teatro napoletano e nazionale. Nel 1973 interpreta il ruolo del Servo ne La Casina di Plauto, e, successivamente, veste i panni di un altro servitore, Messenione, nei Menecmi dello stesso autore romano. Nel 1977 dirige e interpreta Sik Sik l’artefice magico, commedia di Eduardo De Filippo. In Lubuk nel Re Mida di Domenico Rea, in Salvatore Cammarano ne La perla reale, protagonista di una vicenda ambientata nella Napoli dello “Sventramento”, le partecipazioni alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, passando per interpretazioni legate a testi della letteratura classica, in particolare quella latina, la maschera di Gerardo Scala non si risparmia. Con Antonio Casagrande, Vittorio Caprioli, Italo Celoro e Angela Pagano, alla fine degli anni settanta partecipa alla preparazione e alla rappresentazione de L’opera dè muort ‘e famme, che va in scena in occasione dell’inaugurazione del teatro Giulio Cesare di Roma e che, successivamente, viene replicato all’Augusteo di Napoli. Questa esperienza si realizza dopo aver recitato anche per Francesco Mastriani.
Negli anni ottanta il suo percorso di attore si fa sempre più trasversale, grazie a interpretazioni che lo coinvolgono tanto nel teatro di prosa, quanto in quello civile, in quello popolare, in rassegne nazionali che in quegli anni portano il teatro in molte regioni. Scala lavora anche per la televisione, in produzioni RAI di spettacoli musicali che lo vedono impegnato con Simona Marchini, Gigi Reder, Marina Confalone, Renzo Montagnani e molti altri attori e personaggi del “piccolo schermo”.
Nel cinema il ruolo di caratterista lo impegna in prove d’attore che, grazie alle sua doti, alla sua perizia e alla sua naturalezza di recitazione, ne fanno una sagoma prestata ai contorni della raffinatezza, senza mai trascurare quel piglio essenziale e discreto che concretizzano la sua spiritualità scostante, diffidente, ma completamente dentro l’ironia e la tragicità delle cose. In Cafè express, diretto da Nanni Loy, Gerardo Scala è un controllore delle ferrovie che, da perenne raffreddato, avvolto nella sua sciarpa, manifesta l’insofferenza tanto al comando quanto all’obbedienza. In Così parlò Bellavista e ne Il mistero di Bellavista, Luigino ‘il poeta’ si assume il compito di cifrare i momenti di riflessione guidati dal ‘Professore’ (Luciano De Crescenzo), verseggiando sui dati spiccioli della Napoli odierna, riuscendo a sciogliere con disinvoltura i nodi della paranoia quotidiana collettiva.
In Mi manda Picone, dove Scala interpreta un fabbricante di fuochi d’artificio non vedente, ne Il lumacone, in Scugnizzi, in 32 dicembre e in ogni altro film delle sue esperienze cinematografiche, Gerardo Scala si trasforma in un’icona mitologica, incastrata in un antro da cui proviene una voce che turba, un verbo che smonta, da due labbra sotto due occhi posati sopra il subdolo scientifico, con l’ambiguità a mo’ di mezzo, di strumento, laddove a parlare è una polifonia di significati, in un coro che di tanto in tanto ricorda il doppio della serietà, in quell’abisso da cui poter risalire per respirare la leggerezza che consente di conoscere meglio la profondità e l’assurdità della vita, soprattutto della sua bellezza.
Ricordo proprio quella sera a teatro, quando, in veste di Seneca, Gerardo Scala, tra l’anarchia del soggetto e gli intercalari al suo monologo, commentò una sua battuta dicendo con fierezza, “Bello! ‘Na strunzata, ma bello.”