Aspettando il nuovo mostro
C’è chi non sa cosa fare e c’è invece chi sa sempre cosa fare. Due categorie dai gradi ennesimi del senso di responsabilità umano. Un guappo argentino li assegnò a due azioni: dare la vita e toglierla.
In Sudamerica, osservando il modo di lavorare, di parlare, di comportarsi di chi ogni giorno si dedica a problemi come la fame, la miseria e la violenza, ho potuto notare un aspetto che col tempo è diventato una specie di precetto interiore. Nessuno impone a nessuno, nessuno convince nessuno. Laddove l’uomo si immerge nell’abisso, nessuno fa da padre a un altro. Le paternità socratiche guardano a distanza. Si sta lì, qui, lontani, vicini, presenti o assenti, tanto nell’operatività delle azioni quanto nell’immersione intellettuale e spirituale nelle cose. In Africa, invece, avendo potuto vedere più da vicino anche il meccanismo e l’effetto del processo della ricchezza e di come essa si origina laddove non si vede altro che povertà e desolazione (in una parola, colonialismo), ho notato la stessa identica cosa. Nessuno impone a nessuno, nessuno convince nessuno. Ci si aggira, pazienti e sardonici, nel labirinto di occasioni dove a ogni angolo può trovarsi nascosta la soddisfazione dell’egoismo. Nessuna isteria, nessun affanno.
È vero, assistiamo a forme di governo sanguinarie e spietate (anche chi guida i sicari e i kamikaze lo fa attraverso pratiche di dominio), esiste il potere fine a se stesso, ma non sono che le espressioni di tutto quello che vive così come il corso degli eventi decide di determinare. Millenni di storia sono sufficienti per ricordarci che i più atroci soccorsi tacciono a lungo prima di rivelarsi e che dall’annuncio dell’emergenza altro non scaturisce che la distrazione dalla verità.
Adesso, se mi mettessi a scrivere di cinquant’anni di colonialismo post bellico francese, del Mali, della Costa d’Avorio, dell’Algeria, del Libano, del Marocco, della Siria, – appunto, la Siria – e di altri paesi di altri continenti – perché qualcuno ignora che il tricolore francese risponde anche a un motto dell’impero coloniale – appellandomi alle cronistorie di decine di operazioni militari effettuate dai governi francesi solo nell’ultimo mezzo secolo, aggiungendo e citando documenti, analisi e ipotesi su quanto e come i paesi più potenti dell’occidente abbiano operato – non in nome del “bene” – sulla fisiologia storica, sul decorso civile, sull’umanità stessa di questi luoghi, potrei mai rendermi più utile di quanto tentato da chi ancora di più, con maggiore forza, con più costanza e con estremo entusiasmo (per alcuni le conseguenze sono state terribili), in un passato recente e lontano, ha cercato e cerca di consegnare agli altri una conoscenza più profonda delle cose? No. E che sia pure tradotto in arrendevolezza. L’arrendevolezza, anche questo spesso viene trascurato, è una forma di decisione. L’arrendevolezza è cristiana, è un momento di forte religiosità. Nulla di cui vergognarsi se la si sperimenta dentro di sé. Arrendersi può procurare momenti di rivelazione e può fornire nuove forme agli interrogativi.
Ammettiamo l’affanno di aver frainteso le fonti preziose della conoscenza, dell’accessibilità, tutto soppresso dentro un’assuefazione che non lascia più distinguere il vero dal falso. Piuttosto, meglio evitare il rischio di cadere nei ranghi del lutto e delle sue classificazioni. È tutto già così miserevolmente sintetizzato nelle gerarchie del dolore per poter aggiungervi altro senza un segno di ridicolo.
I giornali e le televisioni, intanto, descrivono meticolosamente le biografie delle vittime di Parigi (come hanno fatto a suo tempo con New York e Londra, senza andare troppo lontano), sottolineando successi e potenzialità delle loro vite interrotte, ma solo per sostenere la metabolizzazione patetica della ricezione collettiva. Sollecitare la rabbia e lo sdegno secondo lo spreco di una sorta di ex felicità, in un’operazione che restituisce la tragedia tramite i criteri del censo, al cospetto di stragi ancora più grandi che non solo finiscono dimenticate, ma non trovano celebrazione alcuna, senza che nessuno estragga una sola storia, un solo dettaglio, un solo volto dal tumulo di macerie vive che ogni giorno si sommano nell’invisibile. Questo ammasso luttuoso distingue le sepolture dalle fosse comuni, i funerali di stato dai defunti ignoti, e non in nome dell’effetto irrimediabile della distruzione, ma per conto della morte di classe. Non sfugge occasione perché le circostanze risparmino questo utilitarismo mediatico che ha il sapore di un macabro intrattenimento, a volte anche autorizzato dalla partecipazione dei più stretti congiunti. Ma questo, sia quindi perdonato il principio d’eccesso, è meglio che rientri nella discrezionalità del pudore, anch’esso, pare, finito da tempo nelle grinfie della spettacolarizzazione mediatica.
Per quanto ancora durerà questo giudizio collettivo di quello che Eugenio Montale ha definito un “totale impensabile mostruoso”? L’unità di misura del biasimo dove è depositata? Eccola, la tara morale di chi riserva comprensione ai figli del disagio civile occidentale e non sa, non può, ma vi specula, osservare e comprendere quello del cosiddetto mondo orientale (l’eterna divisione), in cui, molti lo dimenticano, interviene quotidianamente anche quello proveniente da ovest. Semplificare sul tragico è un’azione orribile, talvolta inconsapevole. Un peccato additivo che, sia pur involontario, rischia di contribuire alla composizione del grande peccato civile maturato nel terzo millennio. La teologia, in prima linea la Chiesa cattolica, con alcuni dei suoi ordini religiosi, anche quelli protagonisti di contrasti interni, affronta da sempre il tema del cosiddetto Peccato sociale (concetto che si fonda su un’origine antica), frutto di una sedimentazione di iniquità, di omissioni, di trascuratezze, che ognuno accumula dentro di sé per poi esprimere irrimediabilmente anche davanti ad avvenimenti di ordine superiore rispetto alla dimensione microscopica dell’individuale. Ne ha ampiamente discusso e scritto, per esempio, anche Karol Wojtyla (nello specifico in maniera molto chiara con una Esortazione apostolica del 1984), qualora qualche deriva conservatrice reclami il suo cattolicesimo di vecchia generazione.
I mezzi di comunicazione di massa, gli strumenti tecnologici e le evoluzioni dei media hanno alimentato la partecipazione collettiva. Un coinvolgimento per cui si senta dentro l’informazione e la sua diffusione, illudendosi di farne parte in maniera attiva, senza invece rendersi conto di essere portatori passivi di menzogne, di alterazioni, trasformati in globuli incolonnati ad affollare questa apocalisse intellettuale e morale. Non c’è qualcosa di autodistruttivo anche in questo? Non c’è qualcosa che in maniera allegorica si approssima a una funzione kamikaze? Contro chi si rivolta tutto questo?
Come personaggi del teatro di Checov – la letteratura è una spia sempre accesa, ma spesso ignorata – riserviamo i nostri entusiasmi alle più frivole e puerili esibizioni, deludendo sistematicamente le promesse che noi stessi facciamo al nostro io. Un’evasione spirituale ricolma di piccoli e grandi tradimenti, nel compimento di volgari e miseri sforzi rivolti, solo in apparenza, a cullare sogni e nobili attese, ma che poi, sistematicamente, svelano le più grette ed effimere pulsioni. La religione dell’implosione. E non è come consumarsi dentro se stessi? L’antidoto del rifugio quotidiano somministra le sue sicurezze, durando fin quando qualcosa di più fragoroso e temibile viene a scovarci. In questo oblio, ognuno di noi, nelle mani del caos, può essere guardiano, vittima o illudersi di garantirsi nel fare da spettatore emotivo. La vita quotidiana ne ha bisogno. Quale meschinità accomodarsi a sbirciare e a seguire la realtà come fosse una finzione.
L’abitudine a colpire i luoghi della cosiddetta vita quotidiana sta veramente nel fatto di voler destabilizzare la serenità della convivenza civile (come la chiamano i benpensanti)? Raramente si ricordano azioni dirette a colpire luoghi riconducibili a identità di potere. L’avamposto è guardingo, è armato, ha i mezzi per difendersi. Invece la vita quotidiana no. La rivendicazione non esiste, è solo un momento protocollare, perché le scatole cinesi sono troppe affinché una sola agisca per tutte. Esiste la distinzione tra quello che può essere colpito e sacrificato e quello che invece conserva la garanzia dello stare a guardare, a contemplare il danno e l’effetto, che, chissà, potrebbero tornare utili quando un nuovo silenzio avrà spedito tutto nel dimenticatoio. Troppi livelli intermedi restano celati e irrivelabili. Vale la pena confidare in chi si crede sia ordinatore dei ripari dal caos e invece non è altro che attore del continuo avvicendarsi di moderni conquistadores? La facoltà di opporsi è perduta. Aver raggiunto un tale livello di sviluppo tecnologico ha maturato un’idea di guerra scongiurabile senza possibilità di scelta, perché niente rimarrebbe se essa esplodesse, e, allo stesso tempo, ha dato vita a un sistema di potere dai comandi ignoti, al quale è pressoché impossibile rivolgersi perché non si può individuarne con certezza i destinatari e ogni istanza cadrebbe nel vuoto.
C’è un’altra cosa che il potere sceglie di ipotecare: il futuro. Gli sviluppi delle cose peggiori troppo spesso si somigliano. Un’unità di produzione che crea fenomeni tragici di consumo. Anche stavolta, forse, potremmo trovarci davanti alla creazione di un nuovo fenomeno, di un nuovo mostro che sarà sottoposto, poco a poco o improvvisamente, come è accaduto per i mostri precedenti, al suo trattamento, per poi essere ufficialmente dichiarato morto dopo l’esecuzione di un’icona simbolica e ipotetica (il capo dei cattivi di turno), per poi riservarsi nuovamente la creazione di un altro mostro che segua, anch’esso poco a poco o improvvisamente, le stesse istruzioni impartite a quelli precedenti. Un ciclo di ambiguità in cui l’uomo pare somigliare al dio che ha inventato.
Eugenio Montale, nella poesia Vaniloquio, la stessa del verso citato prima, scrive:
“La scomparsa del mondo che manda al settimo cielo
sinistri questuanti non m’interessa per nulla.
Sembra che sia lontana, per ora non minacciosa.
Inoltre c’è il pericolo che la notizia sia falsa.
Falsa o vera è scomparsa rateale.
E la mia quota? Forse ne ho già pagata
qualche rata e per le altre posso attendere.”
C’è chi non sa cosa fare e c’è chi invece sa sempre cosa fare. Nessuna paura di ammettere che ci si è ridotti ad aspettare, in quiete o in agitazione, che arrivi il nuovo mostro. Per qualcuno è una condanna, per qualcun altro un colpo di fortuna.