La guerra, la Patria, le immagini: istruzioni per l’uso. La Francia sul banco degli imputati al Torino Film Festival
“La Francia è un Paese di razza bianca”
Nadine Morano, ex-ministro neogollista e parlamentare europea del Partito Repubblicano, settembre 2015
– Io sono un intellettuale di sinistra. Abito a Parigi, in un quartiere popolare e ne vado fiero. Nel mio quartiere coabitano pacificamente ebrei, musulmani, neri
– Ebrei, musulmani, neri. Perché non dici semplicemente: “francesi”?
– OK, va bene. D’altronde, non c’è problema: c’è spazio per tutti a casa mia
– Guarda, che anche loro sono francesi, quindi è anche “casa loro”
Consapevoli del rischio di cadere nella semplificazione, valeva la pena però di riportare ugualmente questo breve dialogo contenuto all’interno di Où est la guerre, documentario di Carmit Harash, regista francese di origine israeliana, presentato alla 33° edizione del Torino Film Festival nella sezione “Internazionale.doc”. Il tentativo è quello di provare ad inserire uno spunto di riflessione che abbia forse qualche cognizione di causa rispetto al rumoroso vociare di questi giorni che ha scandito minuto dopo minuto l’orrore che meno di due settimane fa ha nuovamente sfondato le porte della “civile” e “accogliente” Europa, inondandola di sangue.
Concepito nel 2012, il film della Harash, che sembrava quasi un’opera di fantascienza nella sua pretesa di andare a cercare la guerra in Francia, si è purtroppo trasformata in un’ opera agghiacciante e tristemente profetica che ha fatto della regista una sorta di novella Cassandra. Où est la guerre, sebbene con toni leggeri e senza rinunciare qua e là ad una certa dose di ironia, fotografa con intelligenza una situazione esplosiva e lancia un atto d’accusa contro la società francese che preferisce voltarsi dall’altra parte rifiutando di guardare in faccia le contraddizioni e le lacerazioni di un mondo in cui la distinzione tra “bianchi” e “non-bianchi” è tutt’altro che un ricordo del passato.
Un atto d’accusa, tanto più forte in quanto ideato e realizzato prima ancora degli episodi di Charlie Hebdo e quelli del 13 novembre, vòlto a dimostrare come il secolare e abusato motto “liberté-égalité-fraternité” non è altro che un refuso della Storia dove l’uguaglianza e la fraternità sono soltanto delle chimere, e la libertà è talmente scarsa che, come afferma la regista: “Girare un film politico in Francia è una sorta di missione impossibile. Mentre negli Stati Uniti i cineasti sollevano nei loro lavori tutta una serie di problemi e vincono premi nel loro Paese e in tutto il mondo [evidente il riferimento a Frederick Wiseman], in Francia si oppone una strenua resistenza ad ogni tipo di critica. Bisogna essere pazzi o suicidi per girare un film del genere”. Prova ne è che in Francia il film è stato escluso dai circuiti distributivi.
In una delle sequenze più (tristemente) suggestive di Où est la guerre viene mostrata la facciata del “Museo dell’Immigrazione” di Parigi dove si vedono dei bassorilievi in cui la Francia, dea dell’abbondanza, riceve in dono derrate di ogni genere dalle colonie dell’Africa e dell’Asia, i cui abitanti sono raffigurati con espressioni e toni grotteschi. Questa scena rimanda Où est la guerre ad un altro documentario presentato qui al Festival, come Evento Speciale, nella stessa sezione di quello della Harash: La France est notre patrie del grande regista cambogiano Rithy Panh.
Attraverso un montaggio di immagini amatoriali, da cinema muto, che riportano alla tecnica del cinegiornale di propaganda, qui (s)montato e capovolto mediante sarcastiche didascalie, Panh descrive la storia del colonialismo francese in territori come l’Indocina e la Cambogia fino alla penetrazione in Africa e nel Mali. Le immagini dei conquistatori selezionate dal regista mostrano uomini bianchi dal viso bonario e rassicurante che esportano l’industria e il progresso (no, la democrazia non ancora), costruiscono strade, scuole e ospedali, impongono la dottrina cristiana e, come risarcimento per il disturbo, portano via materie prime, animali e persino derrate alimentare come riso e orzo. La France est notre patrie, potente opera di decostruzione del mito coloniale, vuole essere, nelle parole del regista, “la storia di un incontro mancato tra due culture, due sensibilità, due immaginari”. È lo stesso concetto di “patria”, culmine di ogni retorica nazionalista, ad essere messo sotto accusa dal regista che la descrive come una parola magica, un vuoto incantesimo che ha come unico scopo quello di blandire e ipnotizzare, per rendere ancora più labili e sfumati i suoi già fragilissimi confini.
Per questa ragione il film di Rithy Panh non può che concludersi con una riflessione amara ed un avvertimento: la prima ha lo scopo di avvertire, ammettere e riconoscere che “il nemico è vicino, il nemico siamo noi” mentre la seconda invita a saper guardare bene le immagini perché esse si fanno spesso beffe di noi. Come quelle che abbiamo appena visto. Che sono belle. Belle e avvelenate.
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it