“Cronache dal presepe”, la rassegna natalizia della Rivista Milena
Caro Lettore,
la Rivista Milena tenterà di omaggiarti di una breve rassegna che avrà durata per tutte le festività natalizie. Sarà un piccolo dono al pudore e al silenzio del Natale, quota minima e impercettibile di un luogo festivo che già da molto tempo sta facendo i conti con diverse trasfigurazioni collettive.
La rassegna, intitolata Cronache dal presepe, raccoglierà alcuni aneddoti e alcune curiosità, dettagli e frammenti dell’immaginario estetico natalizio, nel tentativo di disporle come su un panorama di storie e di testimonianze provenienti da luoghi vicini e lontani, in chiara allegoria alle figure del presepe che si sono messe in viaggio per andare a far visita al nascituro per eccellenza.
Uno scorcio tracciato da frammenti di film, di opere letterarie, artistiche, di canzoni, in una parola, di momenti. Tutto nel piccolo grande paesaggio spirituale e antropologico che è il presepe, riproduzione geografica dalle mille identità, dagli innumerevoli adattamenti, con le sue allegorie, i suoi misteri, le sue leggende, ma con la direzione unica di salvaguardarsi continuamente nel suo affresco natalizio in cui, come per incanto, i simboli mortali non prevalgono sull’abbondanza armonica di simboli, di figuranti, di acronimi, di versi animati, in un’apparente paralisi destinata a un impareggiabile resoconto.
Il presepe è la natura viva dove non compare la morte. Essa non viene direttamente rappresentata, o, meglio, almeno non gode di presenza dominante, se non nei rinvii impliciti di alcuni elementi, come il fiume, per esempio (non è l’unico). Laddove il personaggio più stanziante è il dormiente Benino (la sua funzione è preziosa e altissima, diversamente da quanto voglia sostenere l’interpretazione più sbrigativa della sua indifferenza, nel compito di inconsapevole custodia di quel viaggio che l’uomo intraprende per la scoperta di significati remoti e misteriosi), tutto il paesaggio si muove intorno all’attesa e all’avvenuta nascita del Bambino. La parola fine, quindi, resta a tratti reclusa, vagando da condannata, ora in alcuni rimandi metaforici, adesso in una sorta di clandestinità, dove tutto è vivo e niente può mostrarsi finito. La mitologia del presepe non smette il suo verbo, anche nel silenzio delle sue scene, anche laddove è il buio a fare da padrone. Allora perché non recuperare gli oggetti moderni e contemporanei di quel grande presepe che è la ricerca artistica e intellettuale di chi si muove tra le insidie della creazione? Niente finisce se garantito dalla perpetua protezione della città eterna, dove tutto è vivo nel mito che, sia pur tra veleni e tentazioni, tra misteri e scomparse, tra avventi inquietanti e incursioni demoniache, non concede lasciapassare all’intervento mortale.
Da sorpresi, prima di tutto, ti racconteremo del nostro stesso incanto davanti a un’idea così alta da sembrare irraggiungibile. La nascita senza l’ingrediente della morte, che, se per Gesù di Nazareth è un transito necessario al suo personalissimo mito, per gli uomini è una certezza esorcizzata dal continuo perseguimento verso la scoperta del proprio presepe dentro un presepe più grande. Non a caso, nell’antichità intorno alle città era tutto un deserto. Era lì dove a volte si andava a fare i conti con la morte.
Il presepe è la genesi di un grande romanzo popolare antico, che non perdura soltanto grazie alla sua iconografia classica, ma pure attraverso le sue evoluzioni e i suoi cambiamenti, dentro una grande metamorfosi in cui, con attenzione quasi bambina, vale la pena recuperarne i documenti, come in un grande attestato di nascita. Ancora oggi, tra mille fragori, il sussulto di uno starnuto trasforma una pietra in un bambino. Nacque così il figlio di Stefania, la donna che, per aggirare la guardia degli angeli che avevano avuto il compito di non lasciare passare le donne nubili, con un piccolo masso in grembo per fingersi gravida, pur di arrivare al cospetto di Maria e all’adorazione del nascituro.
Come ha scritto Corrado Alvaro ne Il presepe, tratto dalla raccolta Gente in Aspromonte, in cui lo scrittore descrive il presepe di un villaggio calabrese, “Il figurinaio che ha fatto i pastori sa che i ragazzi si fermeranno a guardare una per una le figurine”.