“Cronache dal presepe” – “I Magi randagi” di Sergio Citti: alla ricerca del nuovo Messia
“Come tutte le comete, anche la cometa che ho seguito io
è stata una stronzata. Ma senza quella stronzata, Terra,
non ti avrei mai conosciuto”
dal soggetto di Porno-Teo-Kolossal, film mai realizzato da Pier Paolo Pasolini
C’era una volta un francese, un tedesco e un napoletano. Potrebbe cominciare così, come una di quelle vecchie barzellette che si sentivano da ragazzi, la trattazione de I Magi randagi, il settimo lungometraggio per il cinema di Sergio Citti, girato nel 1996 dal regista romano che aveva ripreso e riadattato, con ampie modifiche, un’idea di Pier Paolo Pasolini. Il soggetto dell’amico-maestro, dal titolo provvisorio Porno-Teo-Kolossal, poneva al centro della vicenda un vecchio Re Magio di nome Epifanio, cui doveva prestare il volto Eduardo De Filippo che, in compagnia del servo Nunzio (Ninetto Davoli), seguiva la Cometa dell’Utopia Ideologica per andare alla ricerca del nuovo Messia che stava per nascere. Purtroppo, una serie di vicissitudini e disavventure ritardavano il cammino di questi novelli Don Chisciotte e Sancho Panza, e i due arrivavano quando il Messia era non solo già nato ma addirittura già morto dopo aver fondato una religione, che era morta anch’essa. Tuttavia, la disperazione di Epifanio veniva attenuata dalla scoperta che, cercando il Cielo, aveva invece trovato e compreso la bellezza della Terra.
A parte il tema del viaggio e la presenza della Cometa, nel film di Sergio Citti non resta moltissimo dell’idea originale: I Magi randagi del titolo sono tre saltimbanchi itineranti, ex-circensi, che cercano di sbarcare il lunario mettendo in scena uno spettacolino nei vari borghi in cui si spostano. Per una serie di fortuite circostanze, si trovano ad interpretare i Re Magi in un presepe vivente organizzato da uno zelante parroco di paese finché, dopo aver rischiato il linciaggio in seguito ad un’orgia con le ragazze del villaggio, hanno la visione della famosa stella che li guida alla ricerca del nuovo Messia che sta per tornare sulla Terra.
Il pellegrinaggio (sempre più sincero ma sempre meno spirituale) dei tre disgraziati li porta ad imbattersi in varie Marie e in vari possibili Gesù e Giuseppe. Il primo incontro si svolge all’interno di un paesaggio degradato che sembra far rivivere le scenografie “dal vero” di Accattone (ed è infatti un omaggio esplicito a Pasolini, con la presenza, in “partecipazione straordinaria”, dei suoi attori Laura Betti, Franco Citti, Ninetto Davoli e Mario Cipriani). Qui Maria, una ragazza di borgata, vive insieme ad una vecchia signora mentre Giuseppe è un latitante che scambia i tre girovaghi per dei poliziotti e minaccia di farli fuori a colpi di doppietta. Accortosi poi dell’errore, l’uomo invita i tre a pranzo ma essi si dicono interessati al bambino che Maria ha dato alla luce davanti a loro su una spiaggia. I tre comprano il lattante dai borgatari al prezzo di tre milioni accorgendosi poco dopo che si tratta di una femmina che regalano ad una coppia di suonatori ambulanti in una scena di struggente serenità e delicatezza.
Stanchi e delusi, si imbattono poi in un’altra Maria, una ragazza-madre che vive all’interno di una stamberga, e si commuovono nel vederla cullare il suo bambino. Certi di avere stavolta finalmente trovato il Messia, i tre “Magi randagi” offrono in dono alla ragazza, anziché oro, incenso e mirra, un presepe meccanico di cui sono entrati in possesso dopo uno scontro con un corteo di fascisti che sgomberavano un campo rom a colpi di manganello. Ma la ragazza-madre ha in realtà anche un secondo bambino, gemello del primo. I tre ne concludono che forse, in un mondo così affollato e violento, un Messia solo non basta prima di comprendere, dopo un ultimo incontro, che il miracolo del Natale si ripete dovunque ci sono una madre che concepisce e/o culla il suo bambino.
Sebbene qua e là un po’ prolisso e squinternato, I Magi randagi è un’opera preziosa e soave che conferma in Sergio Citti una figura che fa da anello di congiunzione tra il cinema di poesia di Pasolini, del quale egli sembra avere appreso la straordinaria lezione di trasfigurazione lirica della realtà, e il grottesco dei film della coppia Ciprì-Maresco che proprio un anno prima avevano debuttato al cinema con Lo zio di Brooklyn. Irreligioso ma non blasfemo, profondamente laico ma tutt’altro che privo di spiritualità, il film di questo grande irregolare del cinema italiano è anche l’efficace resoconto critico di un Paese, l’Italia, dove continuano ad imperare razzismo, familismo, ignoranza, volgarità morale e intellettuale, letargo delle masse (la grande sequenza dello sceneggiato TV Frutto d’amor e frutti di mare che ipnotizza gli spettatori).
Per questa ragione, a dispetto del loro statuto di santi straccioni e scalcagnati, questi tre antieroi si rifiutano di adorare un Bambin Gesù fatto di latta e vasellame e sanno parlare da pari a pari con un Padreterno bizzarro e schernitore (bellissima invenzione il dialogo surreale dei tre protagonisti con questo dio burlone nella sequenza del sogno condiviso) che è costretto ad ammettere di non essere in grado di mettere ordine nel caos delle faccende umane. L’invito finale, allora, non può che essere quello di ricordare che, come è scritto nel Vangelo di Matteo (l’unico a citare l’episodio), i re Magi cercavano un re da adorare e invece “trovarono un bambino con sua madre”. L’approdo del lungo peregrinare è un’immagine semplicemente, schiettamente, meravigliosamente terrena. E perciò miracolosa.
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