Gino Maringola, solo uno come lui, l’attore cerebrale
Lo sguardo sopra un cenno di sorriso e gli occhi appena stretti. Una maschera rigida e spigolosa, con dentro una voce ferma e cristallina. L’eco della Napoli vestita in abiti inglesi. Gino Maringola, l’attore cerebrale di Eduardo De Filippo, “Un parlatore, ‘nu trac”, come lo ha definito una volta proprio il capocomico che scelse Maringola per fargli interpretare i ruoli dei personaggi più ruvidi e tormentati di molte delle sue commedie.
L’ingrata codardia di Vicienzo ‘o Cuozzo, che davanti al timore di subire una rappresaglia, nega la disponibilità della verità alla richiesta di Antonio Barracano, il guappo che ne Il Sindaco del Rione Sanità salva il Cuozzo dal debito contratto con un esoso e spietato strozzino. ‘O Cuozzo è la Napoli incapace di riservare riconoscenza a dispetto di ogni rischio personale, di fatto, la sconfitta dell’umanità a favore di un’insana salvaguardia personale. Soltanto Maringola avrebbe potuto interpretare un prisma di sentimenti come quelli del Cuozzo. E proprio ne Il Sindaco del Rione Sanità Gino Maringola, nel 1971, aveva ricoperto il ruolo, prima della versione televisiva che lo aveva visto nei panni del Cuozzo, di Fabio Della Ragione, il “dottore”, un Asclepio metropolitano condannato a vivere fianco a fianco ad Antonio Barracano, per portare avanti il disperato progetto di recupero sociale dei quartieri popolari della Napoli impopolare. Fabio Della Ragione assorbe le pulsioni e i malumori di una repressione individuale che è specchio di quella collettiva, e, al pari della successiva interpretazione di Ferruccio De Ceresa, soltanto Gino Maringola avrebbe potuto dare un volto al tormento dentro il tormento, al “parlato” complesso ed essenziale dell’intelligenza furiosa e indomita rinchiusa in gabbia.
L’irrequietezza di Don Pasquale, ne Le Voci di dentro, il capofamiglia dei Cimmaruta, marito infelice e padre poco influente, sofferente dentro la sua rude e nevrastenica malinconia, per un’infanzia e una giovinezza perdute negli orrori e nei traumi della guerra. Irrequietezza culminata nel monologo di Gino Maringola sulla distruzione della sua stessa persona, un monologo che parla a se stesso, ma soprattutto a un’intera generazione, fallita nell’incapacità di trasmettere ai più giovani la sacralità dell’intimismo familiare. In quel monologo, soltanto uno come Gino Maringola avrebbe potuto confessare i ricordi di bambino, della sfogliatella di Pintauro, del vestito alla marinara, con la voce gonfia e rotta di un uomo perduto in un irrimediabile smarrimento.
L’egoismo, lo squallore, la solitudine, di Giacomino Trocina (ne Il contratto), parente sgradito ma “necessario”, del defunto Gaetano Trocina, che gli ha destinato, nella sorpresa degli altri congiunti, una quota dell’eredità solo per ottenere un contratto con una specie di santone capace di resuscitarlo. Soltanto Gino Maringola avrebbe potuto incarnare la grettezza dell’interesse economico, ipocrita pure nel dolore del lutto. L’affettuoso infantilismo di zio Pasqualino, fratello di Luca Cupiello nel presepe moderno di Natale in casa Cupiello, litigioso, conflittuale, col nipote Tommasino (Luca De Filippo), nell’andirivieni di provocazioni e di punzecchiature, al cospetto della paziente sopportazione familiare. Solo uno come Gino Maringola avrebbe potuto rappresentare la posa “vesuvianica” del figuro permaloso, nato per predicare l’arte del puntiglio.
Sono tanti i personaggi e gli anti eroi cuciti addosso alla figura sottile di Maringola, dentro quel teatro di Eduardo col quale, a detta dello stesso attore, non mancavano i confronti più aspri, ma sempre con la volontà del recupero, azione che il drammaturgo napoletano riservava a pochi attori. Gino Maringola era tra questi.
La carriera artistica di Maringola, classe 1917, orfano di padre e “allevato” da uno zio, era iniziata come cantante, nata dall’abitudine di allietare i suoi compagni di lavoro presso il silurificio italiano di Baia. Da Zi’ Nicola alle canzoni religiose, come quella dedicata alla Madonna dell’Arco, a Sant’Anastasia, senza dimenticare le ballate politiche, come La storia di Salvatore Giuliano (di Turi Giuliano), in cui Maringola canta la strage di Portella della Ginestra e i misteri politici intorno a “chi ha armato la sua mano, e a Palermo inizia a tremar”.
Fu all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940, che Gino Maringola fu chiamato da Salvatore Cafiero per entrare a far parte della celebre compagnia teatrale Cafiero-Fumo, dove recitavano anche le sorelle Nunzia e Nuccia Fumo. Da allora la carriera artistica di Maringola non conobbe altro che stima e consensi, nel teatro, dove lavorò con molti altri registi e attori importanti, nella canzone, col suo piglio da chansonnier, e nel cinema, da La ragazza di Bube, passando per Operazione San Gennaro, Le Quattro giornate di Napoli e fino a Così parlò Bellavista.
Gino Maringola è stato anche scrittore – lo testimonia la pubblicazione del libro Attore, il mio mestiere, edizioni Fiorentino – e poeta, con la pubblicazione del volumetto illustrato Fra’ Diavolo – Il brigante dalla vita erotica e dalla morte impavida, edito da Antonio D’Anna editore. Intorno a questo volume c’è una piccola storia, documentata in rete, che rende degnamente onore alla grande sensibilità e al garbo di un uomo-capolavoro. Quando Gino Maringola andò dall’illustratore, Vincenzo Cerino, per pagargli il compenso del suo lavoro, quest’ultimo non ne avanzò alcuno. Allora Maringola, per riconoscenza, gli chiese se avesse una videocamera. L’illustratore la prese e Maringola dopo avergli detto “Prendila, tu hai donato a me la tua opera e io non posso fare altro che donarti la mia”, facendosi filmare, gli recitò alcune delle sue poesie.
Di Maringola Luca De Filippo ha detto: “La professione che adesso faccio l’ho imparata anche da Gino Maringola, attraverso la sua modestia, la sua dignità quasi aristocratica che lo ha sempre contraddistinto, la generosità verso i compagni. Doti rare, nel teatro, che vanno scomparendo sopraffatte come sono da una marea di facce toste”. Gino Maringola ha vissuto i suoi ultimi anni di vita tra Vico Conte di Mola, nei pressi del Teatro Augusteo, e Via Trinità degli spagnoli. La sua voce, provata dalla stanchezza degli anni, ma sempre netta, pulita, minima, fino alla fine, ha dedicato le sue ultime parole all’unica richiesta che uno come lui avrebbe potuto riservarsi. “Amate il teatro”. Grazie a quelli come Gino Maringola si ha la sensazione che quell’amore venga in qualche modo ricambiato.