“Il figlio di Saul” di László Nemes: la fabbrica della morte
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo,
che ha fatto della mia vita una lunga notte.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini
di cui avevo visto i corpi
trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Elie Wiesel, La notte
Dopo avere lasciato a bocca aperta i critici all’ultimo Festival di Cannes, dove si è aggiudicato un meritato Gran Premio della Giuria, Il figlio di Saul è nelle sale italiane dal 21 gennaio sebbene la distribuzione (poco più di una trentina di copie) sia stata tutt’altro che capillare. Mentre scriviamo, infatti, in alcune grandi città, come ad esempio Napoli, l’opera d’esordio di László Nemes non è ancora arrivata e la faccenda grida vendetta non perché il tema obblighi necessariamente alla massima diffusione (ad essere sinceri, non sempre la Shoah ha avuto al cinema una rappresentazione artisticamente degna di nota) ma perché si tratta di un film veramente clamoroso, un lavoro in cui l’etica e l’estetica trovano una sintesi strabiliante e, in tutti i sensi, sconvolgente.
L’idea del film nasce mentre il regista si trova sul set de L’uomo di Londra di Béla Tarr, il maestro ungherese del quale Nemes è stato assistente. Durante una pausa, mentre si trova in libreria, gli capita tra le mani un volume dal titolo Des voix sous la cendre (in Italia il libro è pubblicato, a cura di Carlo Saletti, per i tipi Marsilio col titolo La voce dei sommersi) nel quale sono raccolte alcune testimonianze di membri del Sonderkommando di Auschwitz. Compito precipuo di questi prigionieri, anch’essi ebrei, era di accompagnare altri prigionieri nelle camere a gas dopo averli fatti spogliare e aver detto loro, mentendo, che andavano a fare una doccia. Dopodiché, loro compito era ripulire le camere, bruciare i cadaveri, spargere le ceneri in mare. In cambio di questa macabra occupazione, questi uomini ricevevano qualche razione di cibo in più e qualche barlume di speranza di sopravvivenza. Tuttavia, ben presto divenne chiaro anche a loro che il fatto di lavorare per i tedeschi non li teneva al riparo dalla morte: al contrario, passati alcuni mesi, venivano essi stessi eliminati dalle SS in modo che non restassero testimoni.
Girato a ritmo frenetico, il film accompagna lo spettatore in un viaggio dentro questo decimo girone dell’inferno dove la morte viene dispensata ai ritmi di una produzione industriale che funziona a pieno regime: dentro i corpi vivi, poi le urla, i pugni che battono sulle porte d’acciaio (l’orrore lasciato fuori campo), poi più nulla o meglio tutto, cioè la fine. Dopodiché via i corpi morti ammucchiati alla rinfusa, la pulizia della camera a gas e dentro altri corpi vivi, i cadaveri bruciati, le ceneri disperse. Stück, cioè pezzo: così i tedeschi definivano i corpi che venivano spinti per sempre nella camera della morte. Pezzi, manufatti, articoli di fabbrica, prodotti. Il racconto è svolto mantenendo il punto di vista del protagonista Saul Ausländer che seguiamo attraverso una macchina da presa mobilissima: il suo sguardo inespressivo, i suoi movimenti concitati, il suo incontro con un “pezzo” nel quale crede di riconoscere suo figlio e al quale prova a dare degna sepoltura, che lotta per tenere lontano dalla “camera”, episodio che a un certo punto dà al film una chiave di volta.
Forse mai prima d’ora, neppure con Schindler’s list di Steven Spielberg e Il pianista di Roman Polanski, nel raccontare una delle più grandi crudeltà del XX secolo, il cinema ci aveva portati così a ridosso dell’orrore, un orrore che bracca, circonda, è dietro, davanti e intorno allo spettatore, testimone con Saul, che è vittima e carnefice, testimone a sua volta, operaio della morte, addetto alla macabra catena di montaggio. Per questa ragione, pur seguendo una linea narrativa tutto sommato tenue e sottile seppur resistente come uno spago (la ricerca da parte di Saul di un rabbino che reciti il Kaddish per il ragazzo morto), Il figlio di Saul non smette di avvincere e stirare i nervi dello spettatore, tentato semmai di volgere lo sguardo altrove o ricacciarlo dentro di sé nel tentativo di scacciare quella visione quasi come se fosse un incubo.
“Ho cercato di curare le immagini in modo da non fare un film visivamente bello e accattivante né un film dell’orrore” ha dichiarato il regista. Precauzione inutile, verrebbe da dire: a livello di rappresentazione della morte, infatti, Il figlio di Saul fa impallidire l’intera serie di Saw che diventa, a confronto, quasi una commedia romantica. Per non dimenticare che non erano “pezzi”, ma carne e sangue, nient’altro ormai che “volute di fumo sotto un cielo muto”.
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