Berlinale 2016: applausi per “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi
Era difficile immergersi dentro una materia di così scottante attualità come la tragedia dei migranti che da anni, almeno per quanto concerne l’Italia, pone l’isola di Lampedusa come nuova frontiera tra una parte di mondo e l’altra (ormai crediamo sia giunto il momento di abolire dal linguaggio la distinzione ormai logora tra un mondo “primo” ed uno “terzo”), tra un continente disperato e ormai allo stremo, e l’altro cui neanche la grande crisi sembra avere insegnato un approccio diverso alla realtà. Era difficile girare un film su Lampedusa perché il rischio di cadere nella facile retorica buonista o nel ricatto morale era praticamente dietro l’angolo insieme al pericolo di far sconfinare il cinema nel territorio spinoso dell’inchiesta giornalistica, del resoconto scabroso, dell’invettiva politica fine a se stessa su uno dei più grandi drammi e delle più grandi sfide morali del mondo odierno (“la tragedia più grande dai tempi dell’Olocausto”, l’ha definita il regista in conferenza stampa). Era difficile, si diceva, girare un film del genere ma era anche inevitabile: infatti, pochi film appaiono oggi più necessari di Fuocoammare (nelle sale italiane dal 18 febbraio), quinto lungometraggio di Gianfranco Rosi e quarta (e migliore) delle opere passate in Concorso alla Berlinale.
Il nuovo documentario di un regista rigoroso e attento, capace come pochi di penetrare dentro una materia e riempirla di immagini al tempo stesso secche e vibranti, asciutte e poetiche, dolorose e liriche, ma sempre di grande vigore espressivo, non si limita a filmare i massicci sbarchi, gli altrettanto innumerevoli interventi eseguiti dalla Guardia costiera, con il loro carico di vite salvate e perdute, le perquisizioni e le identificazioni effettuate dalle forze dell’ordine, le visite mediche, la vita nei centri di accoglienza. Il regista di Sacro GRA e Below Sea Level racconta anche la vita degli abitanti dell’isola, persone semplici la cui generosità di “gente di mare” non si lascia mai travolgere da una situazione da tutti giudicata fuori controllo. Il centro del racconto è un bambino, il piccolo Samuele Pucillo: il regista lo segue mentre gioca con una fionda o con dei petardi con cui strazia un cactus cercando poi maldestramente di ripararlo; a scuola, mentre impara l’inglese; intento ad imparare ad andare in barca o a cercare uccelli nel bosco oppure ad effettuare visite cardiorespiratorie e/o oculistiche per curarsi un “occhio pigro” ed allargare il suo spazio visuale. Oltre lui, incontriamo altre figure straordinarie: l’anziana signora Maria che telefona alla radio locale per dedicare al marito un’antica canzone d’amore, il deejay della radio che diventa una sorta di custode della tradizione, l’eroico dottor Pietro Bartòlo, figura indimenticabile soprattutto quando testimonia sulla carneficina cui gli è toccato assistere e del suo quotidiano rapporto con cadaveri da sezionare ma anche con vite da far venire alla luce, un misterioso sommozzatore, il “personaggio” probabilmente meno risolto, e che forse rappresenta la tentazione, se non addirittura il tentativo, di scivolare dentro un mondo sordo per non essere costretti ad ascoltare il dolore che scorre in superficie, dentro e fuori dal mare.
Con la consueta cura dell’immagine, servendosi di una piccola Arriflex di facile utilizzo con la quale realizza sorprendenti riprese notturne e subacquee, Rosi tratta lo spettatore con delicatezza, non insegue lo shock o il frame dirompente ma, al momento opportuno, non ci risparmia un incursione nell’orrore, obbligandoci ad ascoltare i racconti del dottor Bartòlo, e facendosi a sua volta sommozzatore per immergere la macchina da presa negli abissi infernali della stiva dei barconi dove si trovano, stipati a decine, corpi senza vita, avvinghiati nell’orrido abbraccio della morte e la cui vista non può (non deve) esserci sottratta. Altre volte il regista sceglie la suggestione richiamando, attraverso la nonna di Samuele, momenti della seconda guerra mondiale quando il mare si tingeva del rosso fuoco dei combattimenti navali, il “fuocoammare” del titolo, che è anche il titolo di una vecchia canzone. Omaggio alla generosità e alla schiettezza del popolo lampedusano, film scopertamente e necessariamente politico, Fuocoammare è un’opera preziosa e straordinaria che sa unire con maestria la raffinatezza e l’intelligenza artistica con la tensione morale e viene a dire ad un’Europa sempre più rammollita e in debito di ossigeno che è ormai arrivato il tempo di spalancare il suo “occhio pigro”.
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