Che Renato de Falco non sia dimenticato
“Quanto alta si è levata questa musica dimessa e sottovoce! Una mestizia panica è ora nel canto, e l’arte affina il metro a tal nuova pronunzia che le sillabe si iscrivono in un ideal pentagramma: e sempre più la voce s’è fatta pura, come incavandosi nella sostanza del silenzio”.
Così scrive Francesco Flora in una raffinatissima prefazione di un’edizione del 1946 della Mondadori de Le poesie e le novelle di Salvatore Di Giacomo.
Citando Francesco De Boucard, editore napoletano dell’Ottocento, ideatore della storica edizione Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti (alla quale hanno contribuito scrittori e artisti come Carlo Tito Dalbono, Francesco Mastriani e Teodoro Duclère), Corrado Ruggiero definisce Renato de Falco lo “speleologo del dialetto”, capace di “scendere nelle viscere di ‘guaglione’”. “Trovate il guaglione in ogni strada”, scriveva De Boucard.
Il Napoletanario, Per moda di dire, Napolinomìa, Del parlar napoletano, la versione tradotta in napoletano del Vangelo secondo Marco, sono i libri scritti e pubblicati da Renato de Falco, linguista delle lingue non lingue, in bilico tra quelle che vengono riconosciute tali e quelle che, secondo i canoni severissimi della linguistica, si registrano nel rango dei “dialetti” (espressione anche questa relativamente impropria). Attraverso le opere citate, una vita dedicata alla “lingua” napoletana, non tanto per dimostrarne l’indipendenza istituzionale, ma la sua grande creatività. Nessuna lingua, nessun parlato, nessuna forma di comunicazione sono vive senza idee, senza il ragionamento e senza l’elaborazione del disegno verbale, capace di definire anche quello che l’immediato non riesce a raccogliere in un’espressione o in un’unica parola.
Filologo, autore teatrale, saggista e giornalista, Renato de Falco, voce tenera e severa come il suo metodo di studio, con le sue rubriche televisive (celebre il suo Alfabeto napoletano), i suoi interventi e la sua dedizione all’immagine di Napoli, dovrebbe entrare di diritto nella storia della letteratura della città. Lo stesso Corrado Ruggiero considera il “romanzo” di Renato de Falco come una restituzione vivente del parlato, non inteso come narrativa creativa, e quindi non in forma di romanzo d’invenzione, ma nella spiritualità di quel verbo praticato, pulsante come solo un dialetto può essere, fonte delle lingue nazionali e dei relativi mutamenti. Renato de Falco ha sempre sostenuto la vitalità del dialetto come lingua eterna e indispensabile.
Come egli stesso scrive nel saggio Del parlar napoletano, sottolineando il vigore dialettale anche per bocca di altri autori, “Sempre, in ogni caso, rilevante l’attenzione riservata ai dialetti: già nel lontano 1563, la 22a Sessione del Concilio di Trento autorizzava Vescovi e Parroci a spiegare i Sacramenti «etiam lingua vernacula», e G.B. Vico nella 17a «Degnità» della Scienza Nuova affermava che «i dialetti sono i più gravi testimoni degli antichi costumi». Dal suo canto il Croce non esitava ad ammettere che «molta parte dell’anima nostra è dialetto»; più di recente il Migliorini ha accreditato che «la lingua ha bisogno dei dialetti», mentre non può non riportarsi la sorridente boutade del nostro Libero Bovio: «I dialetti sono eterni. Gesù parlava in dialetto. Dante scriveva in dialetto. Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto».”
Del resto, anche Francesco Oliva, poeta e commediografo napoletano di inizio Settecento, per abbozzare un’idea sulla vastità del vocabolario napoletano, aveva dubitato che se ne potesse formare uno totalmente compiuto, tanto fosse sconfinato lo spazio occupato da un numero imprecisato di vocaboli e di espressioni. Gli studi letterari di Renato de Falco codificano lo sviluppo di una lingua parlata a voce alta, con le sue ottave in eccesso, sì, ma con significati intimi e malinconiche allegorie. Tutto diretto alla verifica secondo la vita, nel suo più pragmatico intendimento di vissuto quotidiano. Renato de Falco ha estratto materia preziosa sin dentro le profondità della paremiologia, la disciplina linguistica che studia i proverbi e i modi di dire. Esegesi antichissima, della quale già Aristotele si era occupato, e ispiratrice di produzioni letterarie care a filosofi e a scrittori, in quella tradizione che per secoli ha sviluppato l’adozione delle massime e delle sentenze, compresi i commentari ad esse relative.
Tra le sue “plastiche e icastiche locuzioni”, Renato de Falco ha dialogato per una vita con quel mondo, ormai sempre più in disparte, fatto di luoghi poetici meravigliosi, della Napoli “jentile”, come l’ha definita nel quindicesimo secolo Loise De Rosa, cronista del Quattrocento napoletano, “padre”, secondo alcuni (tra questi anche Gianfranco Contini) del dialetto di quel secolo.
Tra tutto questo (e non solo) e per tutto questo, la sensibilità e la perizia di Renato de Falco hanno voluto perdersi in un soave smarrimento, ovviamente lucido, tangibile e restituibile, soprattutto alle nuove generazioni che non erano affatto estranee alla percezione emotiva e intellettuale di Renato de Falco. Non si può studiare una lingua se non si tende l’orecchio verso qualcosa che vuole starsene fuori dal tempo. E, da Dante a Conrad (dalla lingua colta alla narrativa moderna), la letteratura ha ampiamente sostenuto l’indomabilità della gioventù. Nella pagina autobiografica dell’edizione sopracitata, che riporta il testo originale apparso sull’Occhialetto di Napoli nel 1886, Salvatore Di Giacomo scrive: “Ma quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l’arte e per grammatica una serenata!”
Ecco, chissà in cuor suo la passione di Renato de Falco quante ne avrà cantate. S’adoperi per quelli come lui il verbo che quasi nessuno ripete, ma che, all’insaputa di molti, ha parlato prima di tutti.