Cannes 2016, Olivier Assayas: spettri, non parole
Ci sono cose che, quando si è inviati ad un Festival, non si vorrebbero mai vedere o sentire e delle quali, tuttavia, il dovere di cronaca impone di dar conto facendone, magari, tesoro per riflessioni ed analisi. Il fatto, anzi il fattaccio è questo: la proiezione per la stampa di Personal Shopper, il nuovo film del bravissimo Olivier Assayas (regista che non ha certo bisogno di presentazioni), in corsa per la Palma d’oro, viene salutato sui titoli di coda da una bordata di fischi. Al di là del caso specifico, è lecito chiedersi, in generale, se sia giusto o meno fischiare un film, anche il più brutto e immeritevole, se questa abitudine, a dire il vero ormai abbastanza desueta, dimostri maleducazione o cialtroneria o se, al contrario, sia un diritto sacrosanto e l’unico modo di manifestare immediatamente il proprio sdegno e il proprio cipiglio nei confronti di un film che non ci è piaciuto e di manifestarlo attraverso qualcosa di più efficace del semplice silenzio dopo l’ultimo fotogramma.
Qualunque sia la propria opinione sull’argomento, c’è da dire che spesso purtroppo vanno incontro a questa sorte proprie le opere cinematografiche più libere e rischiose, quelle in cui, nel nostro caso, un autore come Assayas ha il coraggio di mettersi in gioco, realizzando un film estraneo alle sue corde, probabilmente imperfetto e squilibrato, difficile e forse non del tutto risolto, ma traboccante di ingegno, e sublime nella sua volontà di rivendicare orgogliosamente la sua eccentricità e di porsi come un oggetto filmico (e artistico) radicalmente anticonvenzionale.
Personal Shopper racconta la vicenda di Maureen (una Kristen Stewart forse mai così brava) che si reca a Parigi ad aspettare un “segno”, un messaggio dal fratello gemello, il defunto Lewis, nella speranza che questi possa mantenere la reciproca promessa fatta secondo la quale, in caso di morte, il primo dei due fratelli ad andarsene avrebbe tentato di comunicare con l’altro per rassicurarlo.
L’interesse dell’opera di Assayas sta proprio in questo suo utilizzare alcuni topoi del genere horror (con tanto di apparizione di nubi fantasmatiche simili a quelle che si vedono in Ghostbusters) per mettere in scena lo smarrimento di fronte alla morte e alla perdita ma anche, e anzi soprattutto, per effettuare una disamina delle relazioni umane negli anni 2.0 in cui strumenti come Skype, WhatsApp, Messenger hanno enormemente aumentato le nostre possibilità comunicative, in termini di quantità e latitudine, ma allo stesso tempo hanno trasformato la forma dell’emittente, del messaggio e del ricevente. Per cui, dietro la mole di chat, social network e di presunti scambi comunicativi, si comprende come non esistano più corpi che respirano, sentono, vibrano ma solo ectoplasmi, spiriti, nubi destinate a dissolversi, fantasmi destinati a scomparire.
Spiace, dunque, che un’operazione così ardita e sui generis sia stata superficialmente liquidata con un “fischio liberatorio” proprio dalla stampa, cioè da quegli spettatori giustamente esigenti ma che si immagina dotati di maggiore e migliore capacità di analisi (sarebbe, in fondo, il loro mestiere).
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