“To the Wonder” di Terrence Malick: l’amore ai tempi dell’assenza
Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose
Blaise Pascal
Lui (Ben Affleck) è americano, operatore ambientale, affascinante e taciturno. Lei (Olga Kurylenko) è francese, ha una figlia di dieci anni, Tatiana, e un matrimonio fallito alle spalle. Si incontrano a Parigi, si amano a Mont Saint-Michel. Lei decide di seguirlo negli Stati Uniti, a Bartlesville. I due si amano appassionatamente, senza porsi troppe domande. Dopo tre mesi, il visto di soggiorno scade e Lei torna in Francia. Lui rivede l’Altra (Rachel McAdams), una ranchera amica d’infanzia, i due flirtano, hanno una relazione, si lasciano. Anche Lei ha una fugace relazione con un Altro. Intanto, il sacerdote della principale parrocchia della città (Javier Bardem) è in profonda crisi spirituale, implora Dio, ne lamenta l’assenza, ne soffre il silenzio ma la sua attività pastorale non conosce pause perché il suo prossimo è continuamente bisognoso di aiuto materiale e spirituale.
Alla proiezione per la stampa alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2012, dove venne presentato in concorso, il sesto film (più di 40 anni di carriera) di Terrence Malick, appartatissimo cineasta-filosofo, fu accolto da una salva di fischi ma anche, sebbene in misura assai minore, dagli applausi dei “felici pochi” che lo avevano apprezzato. Alla sua uscita in sala, l’anno successivo, To the Wonder piacque assai poco sia alla critica che al pubblico e trovò pochi difensori tra gli addetti ai lavori. Pur condividendo in parte le accuse di manierismo e dando ragione a quei detrattori che lo considerano un po’ troppo lambiccato ed eccessivamente predicatorio (ma spesso i censori erano gli stessi che avevano esaltato, non si sa perché, Tree of Life, Palma d’Oro a Cannes 2011, che aveva molte caratteristiche simili ma una minore spinta narrativa), chi scrive osa dire che To the Wonder è un film magnifico e straordinario, talmente bello a livello visivo da rasentare la perfezione estetica.
Vi si parla dell’amore (inspiegabile), ma anche dell’odio (altrettanto inspiegabile) tra gli uomini e i sessi, di smarrimento, di solitudine, di una ricerca spirituale sempre più fatalmente votata allo scacco, al punto che, più che una ricerca, sembra di trovarsi di fronte ad una verbalizzazione della disfatta. Ma più di tutto, ci sembra che il film di Malick, sebbene dominato come sempre dalla trascendenza e dall’ammirazione estatica di fronte alla grandezza della Natura, abbia il sapore di un film quasi testamentario, presentandosi come l’opera di un uomo che, giunto al tramonto della sua esistenza, osserva con perplessità (per non dire con raccapriccio) l’Assenza, il Vuoto, lo sfilacciamento degli affetti e delle cose, la loro impermanenza e caducità, la ricerca di una felicità sempre più inafferrabile, l’impossibilità di (per)durare di qualsiasi stato e condizione, la violenza cui viene sottoposta la Terra, a partire dall’acqua inquinata, scoperta dal protagonista durante le sue esplorazioni.
È questa forse la ragione per cui gli attori non recitano, limitandosi ad essere anch’essi nient’altro che presenze, talvolta epifanie, che appaiono e scompaiono, spesso fugaci e lampeggianti, nient’altro che corpi, danzanti o doloranti, intenti a scrutare l’orizzonte per osservare fenomeni atmosferici o per ascoltare la voce di Dio, incapaci di comunicare tra loro (non a caso, ciascuno dei personaggi parla in una lingua diversa). La loro voce è infatti affidata al flusso di coscienza o, nel migliore dei casi, al contatto dei corpi (come nella scena in cui la piccola Tatiana scrive sulla schiena del patrigno senza che questi possa comprendere il suo messaggio) e, ad eccezione della bambina, i loro nomi non vengono mai pronunciati ma lo spettatore li apprende soltanto allo scorrere dei titoli di coda.
Se allora l’amore è una chimera (irraggiungibile o incomprensibile), se Dio si è nascosto, se il mondo è pieno di corpi piagati e/o malati e di spiriti inquieti, se persino le primarie fonti vitali sono seriamente a rischio, la domanda iterata della protagonista (“Cos’è questo amore che ci ama?”), seppur bellissima, rischia di ridursi ad interrogativo insoluto e insolubile di un film che trasuda spiritualità ad ogni scena ma che rifiuta ogni catarsi. Nella bellissima colonna sonora spiccano, tra gli altri, Bach e il Parsifal di Wagner.
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