“Piccolo grande uomo” di Arthur Penn: antistoria del West
Fucili a ripetizione contro archi e frecce:
non ho mai capito come i bianchi
potessero essere fieri di vincere in quelle condizioni…
da Piccolo grande uomo
Si pensa erroneamente che il fenomeno del western filo-indiano sia nato alla fine degli anni ’60 e che prima di allora il cinema avesse ubbidito, senza eccezioni, ad un celebre e lugubre motto, attribuito al deputato del Congresso James M. Cavanaugh, secondo il quale “L’unico indiano buono… è l’indiano morto”. In realtà, sin dai tempi del muto sono esistite pellicole che presentavano un’immagine veritiera o perlomeno non diffamatoria dei “nativi”, la più celebre delle quali, tra quelle sopravvissute (circa l’80% del cinema prodotto nei primi trent’anni di vita della settima arte è andato purtroppo perduto), è The Vanishing American di George B. Seitz, film il cui titolo originale era tutto un programma ma che in italiano è diventato, con traduzione a dir poco maldestra, Stirpe eroica (sic). Nel 1950 uscì inoltre, con un certo successo, Broken Arrow (in italiano L’amante indiana) di Delmer Daves che raccontava l’amicizia fraterna tra un cowboy, interpretato dal grande James Stewart, ed un indiano, e che cercava di veicolare un messaggio di pacifica convivenza tra le due parti, per non parlare de L’ultimo Apache (1954) di Robert Aldrich, in cui Burt Lancaster interpreta un indiano superstite, appartenente alla tribù del titolo. Bisogna infine ricordare che nel 1964 John Ford dedicò il suo ultimo film agli indiani Cheyenne che decisero di lasciare le loro riserve e fare un viaggio di 2000 miglia verso la terra natìa dello Yellowstone. Sto parlando ovviamente di Cheyenne Autumn (in italiano Il grande sentiero, ari-sic), epopea narrata dal punto di vista degli indiani e che alcuni considerarono un atto riparatore da parte del regista dopo opere come Ombre Rosse, Il massacro di Fort Apache e Rio Bravo.
Il revival pro-nativi che portò alla realizzazione del film oggetto di questo contributo è sicuramente merito degli anni della Contestazione, figlio della controcultura giovanile e dei movimenti nati negli anni ’50 e ’60, che trovarono il loro apice nel ’68 e culminarono con il Festival di Woodstock (15-18 agosto 1969). In questo senso, l’anno di grazia per il genere che, per comodità, definirò come “western revisionista”, fu il 1970 che vide l’uscita di tre pellicole epocali: Soldato blu di Ralph Nelson, Un uomo chiamato cavallo di Elliott Silverstein e Piccolo grande uomo di Arthur Penn, il risultato artisticamente più rilevante e secondo western dell’autore dopo il formidabile esordio Billy the Kid (in italiano Furia selvaggia, ari-ari-sic) nel 1958.
L’intenzione di Arthur Penn era duplice: da un lato restituire dignità al popolo dei pellerossa, solitamente rappresentato come selvaggio e assetato di sangue, dall’altro “frantumare gli schemi più rigidi [del western classico] creati da John Ford e da William Wyler”, come ebbe a dire lo stesso regista in un’intervista rilasciata a “Film Comment” nel 1976. Omaggio ad un popolo e, allo stesso tempo, opera sul cinema (o meglio su un suo particolare genere), dunque. Se al momento della sua comparsa Piccolo grande uomo fu giustamente accolto come un’opera dichiaratamente “militante” ponendosi, unitamente agli altri due titoli succitati, come atto di giustizia verso i “veri americani” vittime di un infame genocidio, oggi il passaggio del tempo ci consente di mettere un po’ la sordina al discorso politico (che resta, sia chiaro, dirompente) per sottolineare altri aspetti che consentono al film di conservare, a quasi cinquant’anni di distanza, la sua statura di “classico”, di capolavoro della cinematografia mondiale.
Girato a partire dal 1968, Piccolo grande uomo è tratto da un romanzo di Thomas Berger. È importante sottolinearlo perché, pur nella veridicità di alcuni degli eventi narrati, non siamo di fronte ad una cronaca o ad un resoconto etnologico e scientifico, ma a qualcosa che assomiglia invece ad una saga in cui la Storia si mescola con la fiaba, l’epopea con il romanzo di formazione, la tragedia con la commedia. Non a caso il punto di vista scelto è quello di un uomo di 121 anni che racconta, certamente romanzandoli, episodi avvenuti settanta, ottanta e persino cento anni prima in una narrazione che, sicuramente credibilissima nel suo impianto generale, non manca di inventiva, fantasia, vuoti di memoria. Jack Crabb, il protagonista mirabilmente interpretato da Dustin Hoffman, può essere considerato una sorta di simbolo più che un personaggio vero e proprio, da accostare al Candido volterriano, ad un Forrest Gump ante litteram, cioè a colui che ha attraversato la storia americana sopravvivendo a imprese gloriose (e meno gloriose), ed è stato testimone ed in certi casi protagonista di momenti cruciali (su tutti, la celeberrima battaglia di Little Big Horn che, come è noto, non ebbe sopravvissuti tra i bianchi), conoscendo il Generale Custer, vanesio pagliaccio, e vivendo dall’interno la cultura degli indiani Cheyenne, dai quali viene allevato e dei quali ha modo di apprezzare la bontà, la modestia, l’originalissima spiritualità.
In particolare, le due figure di Custer e del saggio “nonno” cheyenne Old Lodge Skins (Cotenna di Bisonte) appaiono antitetiche: il generale è sciocco, demenziale, presuntuoso, si crede furbo facendo tutto il contrario di quello che gli suggeriscono, mentre l’anziano capo indiano è mite, affettuoso, generoso, animato da un profondo senso del sacro, come si vede nell’indimenticabile sequenza in cui, preparandosi alla morte, si stende a terra all’aperto per attenderla, momento meraviglioso in cui l’ironia si stempera per farsi emozionante elegia di un popolo che ha conosciuto lo sterminio. Il West di Piccolo grande uomo non ha nulla di eroico o di sublime: è percorso da lestofanti, abitato da pie donne la cui disgrazia le conduce al postribolo (lo splendido personaggio di Lady Pendrake interpretato da Faye Dunaway), è un luogo in cui è possibile incrociare Buffalo Bill mentre cavalca malinconicamente sotto la pioggia, o bere una gazzosa con Wild Bill Hickok prima che questi muoia per mano di un ragazzino, o infine farsi arruolare nel 7° Cavalleria agli ordini di Custer con l’umile compito di mulattiere, unico modo per avere salva la vita ottenendo la clemenza dell’ottuso Generale.
Più che nel modo di trattare gli indiani sta forse in questo la principale differenza tra il western di John Ford e quello di Arthur Penn: che se la Storia incontra la Leggenda, a vincere è la Storia anche se a narrarla è un vecchio uomo il cui scopo principale sembra essere solo quello di poter dire con fierezza: “Ragazzi, a Little Big Horn c’ero anch’io”.
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