Venezia 73, “Voyage of Time” di Terrence Malick: la biografia dell’Universo
“La cosa più meravigliosa che un uomo possa sperimentare è il mistero. Esso è la fonte di ogni vera arte e scienza. Chi non conosce l’emozione è uno straniero, chi non sa più fermarsi di fronte alla meraviglia e farsi avvolgere dallo stupore, è come morto: i suoi occhi sono chiusi”. Parola di Albert Einstein. È stato accolto favorevolmente, con un applauso prolungato e sincero, e senza i fischi che avevano salutato l’ultima sua apparizione veneziana con To the Wonder, Voyage of Time: Life’s a Journey, l’ambizioso documentario del grande regista statunitense Terrence Malick. Il film è in corsa per il Leone d’Oro ma assai poche sono le possibilità che il massimo premio possa andare ad un’opera così estrema da rifuggire ogni categoria, un testo filmico difficile da rinchiudere o catalogare, complesso e sofisticato nella messinscena quanto semplice, quasi elementare nel suo assunto di base. Infatti, se nell’altro documentario in Concorso, Spira mirabilis, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (di cui abbiamo parlato in precedenza) indagano e si interrogano sull’immortalità, Voyage of Time: Life’s a Journey esplora le origini e la nascita dell’Universo, raccontando in questo modo una Storia lunga quattordici miliardi di anni.
Nel suo ottavo lungometraggio (in quarantatré anni di carriera) lo schivo e appartatissimo maestro americano usa il cinema per dare forma e corpo a ciò che può essere solo immaginato, mettendo in piedi un impianto visivo e sonoro di incredibile bellezza, con l’ausilio degli effetti speciali del veterano Dan Glass (Sleepy Hollow, Matrix Revolutions e Matrix Reloaded, Batman Begins, Cloud Atlas e The Tree of Life dello stesso Malick, tra gli altri suoi lavori). Ad accompagnare lo spettatore nel “viaggio” è la voce fuori campo di Cate Blanchett, che scrive una sorta di lettera aperta alla Madre Terra ponendole le domande che da sempre permeano le nostre vite: chi siamo? da dove veniamo? perché esiste il Male? In questo senso, in contrasto con la sontuosità e magniloquenza dell’impianto visivo, il testo che ascoltiamo non è nient’altro che la trascrizione degli interrogativi filosofici per eccellenza sul mondo, la sua stranezza e grandezza ma anche la sua capacità di resistere ai cataclismi, la sua incredibile resilienza. Frutto di decenni di studi e ricerche da parte del regista che da tempo ambiva ad un’opera che fosse un incontro tra scienza e arte e della quale uno dei segmenti di The Tree of Life era stato il primo esperimento, il film nasce dall’esigenza, da parte del regista, di invitare lo spettatore a guardare alla storia della Natura e dell’Universo con euforia e stupore affinché egli possa contemplarli e, nonostante tutto, amarli.
Voyage of Time: Life’s a Journey non disegna però soltanto mondi al di là dello sguardo e del tempo: dal macrocosmo il regista giunge poi al microcosmo, la visione del maestoso e del sublime viene seguita, e talvolta si alterna, con la contemplazione dell’infinitamente piccolo (un pesce, un coleottero) fino ad arrivare all’uomo, osservato sia nel suo stato primitivo sia nella sua attualità, in sequenze che sono probabilmente le parti più deboli del film, dove Malick sembra contemplare l’umano come parte ennesima della Natura e suo tratto terminale. Cinema filosofico nel senso più elementare del termine, sublime e ricchissimo, sicuramente respingente per le sue smisurate ambizioni eppure sempre generoso fino alla prodigalità, Voyage of Time: Life’s a Journey si pone come la rappresentazione plastica della famosa frase di Jessica Chastain, la signora O’Brien di The Tree of Life: “Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura e la via della grazia”.
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