Finalmente in dvd: Lo chiamavano Jeeg Robot, il mis-eroe della generazione che non fanno crescere mai

di Lucia Perrucci

Eccolo finalmente a casa, dopo aver incontrato chi lo ha partorito al Giffoni Film Festival, e aver aspettato con la stessa impazienza dello “Zingaro” la sua uscita in dvd, a settembre. Lo chiamavano Jeeg Robot (G. Mainetti, 2015) è un film da tenere in bella vista in libreria, anche se forse non è proprio da tenere vicinissimo ai più tradizionali e fedelissimi supereroi americani, che sanno bene come salvare il mondo, ma hanno troppo poco da salvare di se stessi. E magari, tra tutte le differenze che ci sono tra queste due risme di supereroe, qualche scaramuccia, sugli scaffali, verrebbe fuori (altro che Batman vs Superman!).

Il perché lo conosciamo ormai molto bene: Lo chiamavano Jeeg Robot  ci proverebbe pure a seguire lo schema classico di un cinecomic in cui un tizio qualunque, a causa di un incidente qualunque, acquista un superpotere qualunque. Lo scopre col mal di pancia e inizia ad usarlo per sconfiggere il male, per salvare la bella della porta accanto e per salvare se stesso da una frustrazione esistenziale. Solo che, a un certo punto, lo schema esplode, viene stravolto, smantellato con ironia e rimontato con coraggio per giocare con un genere e reinventarne un altro, un po’ come faceva l’ancora inarrivabile Sergio Leone, che prendeva i film di Ford, li sfilettava, li zoomava, li condiva di fango e poesia e creava lo Spaghetti Western.

Nelle produzioni americane, il supereroe è un borghesucolo medio, timido e goffo magari intellettualmente dotato, meglio ancora se scienziato, coi buoni sentimenti, grandi responsabilità e col nome fico. Ecco, qui in Italia, forse perché la scienza non è finanziata a dovere, il nostro eroe non è nemmeno un eroe. Scienziato manco pe’ niente, criminale forse (qualcosa più, qualcosa meno) disadattato a dovere, ma senza grandi responsabilità, e ha pure un nome banalotto: Enzo Ceccotti (interpretato da Claudio Santamaria, che a Giffoni ci ha confessato di aver dormito malissimo in quel periodo per colpa dei chili in più, parecchi in più). In Italia, inoltre, siccome la maggior parte degli esperimenti scientifici che godono della lungimiranza di mecenati sono quelli provocati dai rifiuti tossici, quale miglior espediente di un bel bagnetto nel Tevere al posto del morso di un ragno OGM?

Non è un caso, né un semplice cliché. Il nostro eroe non viene dallo spazio perché il suo mondo sta peggio del nostro. Probabilmente oggi il signor Jor-El ci penserebbe due volte prima di mandarcelo in fasce (e di certo non è un caso che non sia atterrato in Italia). Non è il riccone vendicativo che vuole sopprimere la corruzione finanziando armi belliche. Il nostro non ha i soldi, letteralmente macchiati (alcune inquadrature su quelli rubati testimoniano questo significato). Non è un genio incompreso che non vedeva l’ora di saltare da un palazzo all’altro perché magari preferiva essere atletico invece che nerd. Il nostro non sa neanche cadere.

Enzo è l’uomo sbagliato nel posto e nel momento sbagliato, che non ha voglia, non ha motivazioni, che non appartiene a nessuno. Non è semplicemente un antieroe. È un mis-eroe, quello che gli eroi forse pure li detesta. Disincantato, incapace, miserabile. Finché non trova lei, lei che nemmeno ci sta con la testa, ma che forse ci sta con i sogni. Lei, Alessia, che non è un primo amore, non è una vecchia compagna di scuola o una collega gnocca, ma è la vicina della porta accanto, anzi del piano di sopra, la figlia di un criminale al quale ogni tanto Enzo vende qualche orologio rubato. Lei non è inarrivabile e fatale, è naif, una mezza bambina che crede che un anime giapponese sia la vita vera, e che aspetta Jeeg Robot d’acciaio per porre fine a tutti i suoi guai. Come forse la maggior parte di noi italiani anni ’80, eterni ragazzini poco inquadrati che ancora aspettano chissà che.

A Giffoni, abbiamo chiesto a Gabriele Mainetti come mai tra Mazinga, Jeeg Robot e Goldrake abbia scelto proprio Jeeg, e lui ci ha risposto con la scintilla negli occhi di chi ancora gode e si esalta davanti al suo cartone preferito: “Perché gli altri guidavano i robot. Jeeg diventa il robot.”

E il cattivo? Beh, Fabio Cannizzaro, detto Lo Zingaro, interpretato dal supereroe Luca Marinelli, meriterebbe un discorso a sé. Potente visivamente e straordinario, un connubio perfetto tra la follia caricaturale dello stereotipo del cattivo viziato (dal Joker di Heath Ledger al tracotante Al Pacino/Manero in Scarface) e la credibilità palpabile del narcisismo dei nostri tempi. Un vero Talent, lo Zingaro che indossa i tacchi e sa interpretare la Oxa (dire “cantare” è veramente poco), fa discorsi motivazionali cantando a squarciagola la Bertè e mette in scena la sua danza mortale sulle note di Nada. La sua è un’ironia cattiva, stronza, ma anche malinconica, nostalgica, come sa bene il Fabio Cannizzaro adolescente nella foto di gruppo di Buona Domenica appesa alla parete. Il suo è un desiderio in linea con il dramma dell’essere umano moderno, dell’essere nessuno, dell’apparire, del lasciare un segno da milioni di visualizzazioni.

Tre personaggi unici, Enzo, Alessia e Fabio, che parlano come è giusto che parlino, come un povero cristo di Tor Bella Monaca, come una ragazzina con l’accento che si mangia le parole e come l’Orlando furioso che parla come mangia, anche se c’ha una mozzarella di bufala in bocca.

“Un film in lingua originale”, ha precisato col sorrisetto di chi sa quello che dice, Gabriele Mainetti. Non è una realtà ucronica o parallela, non è una Roma ricostruita ma nemmeno stereotipata, è una Roma esplicita ma anche sottintesa per chi è buon intenditore. E se funziona davvero, è perché sottintende altro oltre al genere etichettato. Perché azione, sangue, malavita, terrorismo alla Romanzo Criminale lasciano spazio anche a momenti in cui ridi di pancia, a paradossi e a visioni infantili.

Infantile come la caratterizzazione di tutti e tre i personaggi chiave del film: Alessia, persa in questo mondo anime, con i suoi occhioni manga, il vestito da principessa e il palloncino rosa che poi si perde nel vento, lontana dalla solita immagine femminile della bella da conquistare o della eroina al maschile che sa usare un’arma. No, lei è piena di drammi e di segreti, mai davvero svelati, che se la guardi negli occhi capisci. Infantile come Enzo, che sa rubare gli orologi, è grande e grosso e tira fuori un bancomat dal muro con le proprie mani, ma mangia avidamente come un bambino che cerca tenerezza nel sapore dolce di un budino, abbastanza affamato e abbastanza solo da non saper, forse, usare una padella, che non sa investire ma usa i soldi per comprare ciò che ha già, come un ragazzino in un negozio di caramelle. Infantile come Fabio, che vuole essere viziato, al centro, sul palcoscenico del potere su cui si ostina a dire questo è mio, lo volevo nero e non bianco, e poi fa l’amico geloso e deluso mentre i cani fanno festa.

Infantile come la voglia di costruirsi da soli qualcosa che si desidera tanto: e quel desiderio, quella voglia, quella passione, quell’autenticità, in questo film fatto da chi ci ha creduto fino alla fine, come degno rappresentante di questa generazione nata da bozzoli di aspettative e che ora fa i conti col futuro inquinato, si sente tutta. Speriamo allora, noi italiani in fuga e pieni ancora di sogni, di riemergere con un potere tutto nostro.

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