Quando conobbi Dario Fo che mi insegnò a restare umano
Ho avuto la fortuna e l’immenso privilegio di avere conosciuto di persona Dario Fo e di avere parlato con lui in più di un’occasione, sebbene ogni volta per un tempo molto breve. D’altronde, anche un’intera giornata sarebbe un tempo troppo breve quando si ha di fronte un gigante del teatro e un uomo che ha fatto dell’impegno sociale e dell’attenzione verso gli ultimi uno dei punti fermi della sua esistenza.
Dario se ne è andato, ha intrapreso un viaggio verso un mondo della cui esistenza ha sempre dubitato ma che, come tutti, sperava che ci fosse: “Io credo nella logica ma spero, quando sarò dall’altra parte, di essere sorpreso”.
Lo ricordo qui, evitando di inoltrarmi dentro la grandezza della sua arte, la vastità della sua cultura, la profondità della sua intelligenza, la sua inesauribile curiosità, la sua costante voglia di mettersi in gioco. Sono tutte cose delle quali potrete leggere meglio e con dovizia di particolari un po’ dappertutto, sulla carta stampata e sui notiziari virtuali. Per quanto mi riguarda, preferisco condividere con voi un ricordo piccolo e intimo, una storia probabilmente trascurabile rispetto alle tante che potreste ascoltare dalle moltissime persone che Dario ha incontrato nella sua vita. Eppure una storia forse a suo modo paradigmatica per aiutare a comprendere che, prima ancora di essere uno straordinario artista, l’autore di Mistero Buffo e di Morte accidentale di un anarchico era un vero essere umano.
Il nostro casuale incontro avvenne così: un giorno il Maestro era in scena al Teatro Mercadante di Napoli con Lu Santo Jullare Francesco. Eravamo in tre ad andarlo a vedere. Un quarto amico avrebbe voluto essere dei nostri ma era costretto a letto da una malattia rara e invalidante. Sentimmo Salvatore – così si chiamava il nostro amico – al telefono quella sera e lui ci chiese: “Riuscite a fare una cosa per me? Vorrei tanto almeno poterci parlare una volta! Perché non vedete se mi può fare una telefonata? Mi piacerebbe molto”. Gli dicemmo che avremmo tentato ma che probabilmente Dario Fo sarebbe stato irraggiungibile, e che di certo quelli del teatro non ci avrebbero consentito di andare nel suo camerino. Non fu così. Un’ora prima dello spettacolo, vedemmo Dario Fo che si intratteneva con le persone, che parlava con loro, si concedeva per le fotografie-ricordo, girava per gli stand dove si vendevano le sue opere, presenziava al banchetto di Emergency (c’era sempre un banchetto di Emergency ai suoi spettacoli).
Ci avvicinammo timidi ma risoluti, consci di essere portatori di una buona causa, e gli chiedemmo se potevamo parlargli un momento. “Sì, certo – rispose – non sono mica la Regina d’Inghilterra!”. Gli spiegammo la faccenda di Salvatore e gli chiedemmo se poteva fare quella telefonata per il nostro amico. Non ci fu bisogno di insistere. Afferrò subito il mio cellulare e disse col suo vocione al nostro amico: “Ohé, sono DARIO FO!”.
Non fu una telefonata di circostanza, parlarono almeno dieci minuti: il nostro amico gli citò a memoria molte delle frasi udite nei suoi spettacoli, gli disse, quasi scusandosi, che la sua condizione gli impediva di essere lì a teatro ma che conosceva e conservava quasi tutti i suoi lavori. Fu Salvatore a interrompere la telefonata perché la sua malattia, che poi se l’è portato via, gli impediva sforzi prolungati.
Al termine della telefonata, Dario mi riconsegnò il cellulare e ci disse, con voce tremante e palesemente commossa: “Grazie, ragazzi. Porterò sempre nel cuore questo ricordo”. Si informò poi sulla malattia di Salvatore, sulle cure cui stava sottoponendosi. Tacemmo, imbarazzati ma contenti perché avevamo imparato una volta di più quanto fosse importante, al di là del successo e della gloria, restare umani e, soprattutto, sapersi chinare sulle sofferenze dei meno fortunati.
Buon viaggio, Dario: ora vai a raggiungere la tua Franca che, in una delle ultime cose che aveva scritto, ci aveva ricordato che Dio propose all’uomo e alla donna la certezza della fede e la noia dell’eternità ma essi preferirono scegliere la conoscenza e la sapienza, il dubbio e il tormento, l’amore e la morte.
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