“Io, Daniel Blake” di Ken Loach: se questo è un uomo
Daniel Blake, falegname 59enne di Newcastle, è sempre stato un gran lavoratore. Adesso, però, una malattia gli impedisce di svolgere attività fisiche (le sole che è in grado di fare) e Daniel è costretto di malavoglia, solo perché obbligato dai consigli medici, a chiedere l’aiuto dello Stato. Così la sua vita trascorre tra lunghe telefonate ai call-center e code infinite nei centri che dovrebbero assegnargli un sussidio o un lavoro che non metta in pericolo la sua salute. Un giorno, Daniel incontra Katie, ragazza madre con due figli a carico, costretta a lasciare un ostello per senzatetto a Londra e a trasferirsi in un appartamento a cinquecento chilometri dalla capitale. Tra i due si stabilisce inevitabilmente un legame fatto di complicità e aiuto reciproco.
Il punto di partenza del nuovo film di Ken Loach, nelle sale italiane dal 21 ottobre, è la campagna denigratoria svolta dalla stampa e della politica della destra britannica, vòlta a stigmatizzare e denigrare il sistema dei sussidi statali, colpevoli di dare una mano a tanti sfaccendati e reietti che sperperano poi il denaro dei contribuenti sprofondando nell’alcolismo. “Ken il rosso” e il suo fido sceneggiatore Paul Laverty sono entrati poi in contatto con la realtà dei banchi alimentari e hanno scoperto che spesso, nel Regno Unito, considerata una delle terre europee dall’economia più florida, le ragioni della sopravvivenza costringono un numero sempre crescente di persone a dover scegliere tra il cibo e il riscaldamento.
Io, Daniel Blake sembra riprendere, a cinquant’anni di distanza, il discorso di Cathy Come Home, TV-movie girato per la BBC nel 1966, in cui Loach raccontava la progressiva discesa nella povertà di una giovane coppia, la cui inesorabile degradazione li trasformava in senzatetto. Il film si concludeva con l’intervento dei servizi sociali (unico intervento di uno Stato per il resto assente) che sottraevano a Cathy i suoi bambini. Nel nuovo film il discorso è aggiornato nel mondo di oggi, in cui l’universo tecnologico, che per molti è un’opportunità, diventa per altri un ulteriore motivo di esclusione. Infatti, in una scena di struggente tenerezza Daniel, che ignora cosa sia un computer, consegna all’impiegata il suo magro CV redatto a mano.
Se negli ultimi film, in particolare nel poco riuscito Jimmy’s Hall (in concorso a Cannes nel 2014), Loach sembrava aver perduto il suo smalto e, pur non smettendo di denunciare i misfatti della società capitalista e guerrafondaia, era rimasto ingabbiato in un discorso eccessivamente rigido e schematico e in un disegno dei personaggi che scivolava troppo platealmente nello stereotipo, con Io, Daniel Blake realizza un’opera che trova il suo punto di forza proprio nella scrittura dei personaggi. Oltre alla coppia di outsider ben interpretati da Dave Johns e Hayley Squires, c’è una grande precisione nella descrizione delle figure di contorno (l’impiegata sensibile, il vicino di casa che smercia scarpe contraffatte, i due figlioletti di Katie) che risultano intensi e credibili, riuscendo ad imprimersi con grande forza nella memoria dello spettatore. Certo, non mancano alcuni dei limiti e dei difetti riscontrabili in altre pellicole dell’autore e che provocano qualche brusca caduta: un’eccessiva insistenza nel descrivere la sgradevolezza dei rappresentanti dello Stato-nemico, un passaggio poco convincente concernente la vicenda di Katie (che non vi anticipiamo), alcuni momenti in cui il film sembra farsi troppo predicatorio, specie nella parte finale, dove però trova spazio anche una toccante sequenza che vede protagonisti Daniel e la piccola Daisy, picco emotivo del film insieme alla bellissima scena ambientata nel banco alimentare.
Vincitore, con un pizzico di generosità, della Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes (la seconda per il regista dopo quella per Il vento accarezza l’erba nel 2006), I, Daniel Blake è comunque un’opera potente e compatta, commovente ma non patetica, che dimostra una volta di più che, pur ormai al giro di boa degli ottant’anni, il vecchio leone riesce ancora a graffiare e non ha perduto la capacità di conciliare l’emozione e la rabbia, e di trasformare quest’ultima in lucida denuncia sociale.
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