Romanzo criminale, una storia non ancora finita

A poche puntate dalla fine, quando Roma e il mondo sono ormai alle porte dell’era di un’umanità corrosa e virtuale, quel che resta della “banda del Libanese” regola i suoi conti con la lama del coltello. Lo fa attraverso il codice d’onore del “Freddo”, quel Fabrizio Soleri che nella storia della Banda della Magliana è passato sotto il soprannome di “Crispino”, per gli schedari Maurizio Abbatino.

Quando il Freddo infila il suo fendente dentro il petto di uno dei suoi amici, il Buffoni che ha tradito il gruppo e che, senza volerlo, ha mandato in coma il fratello minore di uno dei capi della più potente organizzazione criminale romana, il “Dandy”, che nella storia è stato l’Enrico De Pedis sepolto fino al 2012 a Sant’Apollinare, pensa al suo nuovo business in accordo con la malavita d’alto rango, “Scrocchiazeppi” non sa della tresca di “Fierolocchio” con sua moglie, “Bufalo” e “Ricotta” sono in galera, “Trentadenari” continua a fare il doppio gioco e il Nero, Satana e tanti altri sono da tempo finiti nei necrologi disonorevoli della cronaca nera. Di fatto, da quel momento, dall’ultimo respiro di Sergio Buffoni, la Banda fondata da Pietro Proietti, “Il Libanese” (ispirato alla figura di Er Negro, soprannome di Franco Giuseppucci, realmente esistito), cessa di esistere, sprigionando tutto il suo odio per se stessa e per ogni suo componente, fino all’annientamento, fino all’ultimo grido del “Bufalo” che, ormai invecchiato, ma ancora con l’inferno dentro, urla alla Magliana “Io stavo col Libanese”.

Roma, solo Roma concede il privilegio ai suoi re di infliggersi i colpi mortali del più nobile e deliberato suicidio, con tanto di fondo liberatorio. Se “Roma non vuole re”, la Banda della Magliana raccontata in Romanzo criminale, la serie televisiva, divisa in due stagioni, tratta dal romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo, è il regno criminale del contemporaneo, l’ultima corte venuta su da un’anima criminale proletaria, alternativa all’aristocrazia malavitosa di Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta. Le prime due molto presenti nelle due stagioni della serie diretta da Stefano Sollima.

Quella di Romanzo criminale è tra le poche produzioni seriali realmente ben riuscite degli ultimi anni in Italia. Forse, la migliore. Se la critica italiana ne ha colto i tratti sottili e nostalgici di un periodo dapprima maledetto e poi rimpianto dall’opinione pubblica, quella estera ne ha percepito, giustamente, l’impianto letterario solido e funzionante. Se si eccettuano alcune citazioni-cameo, non nuove in questo genere, dell’Accattone di Pasolini e di pochi altri sfoggi di repertorio, il romanzo di Stefano Sollima rievoca con sforzo letterario personalissimo e originale la narrazione della criminalità borgatara e della sua inadeguatezza alle malizie e alle ambiguità di quella politica e istituzionalizzata.

Il ponte Giuseppe Mazzini, dove il commissario Scialoja, l’intrepido e spregiudicato funzionario di polizia che affronterà quasi da solo le indagini sulla banda, scopre il corpo di Giorgiana Masi (la studentessa rimasta uccisa durante alcuni scontri di piazza nella capitale nel 1977), il bar “da Franco”, situato in via Silvani, nel quartiere Pietralata, luogo di ritrovo della banda, e l’Eur sono alcuni dei luoghi e dei momenti che fanno da sfondo tanto all’elemento di fondazione del gruppo criminale più celebre della malavita romana, quanto al richiamo di un’adolescenza trasfigurata molto presto in spietatezza. Eppure, ognuno dei principali protagonisti della vicenda in cui si intrecciano le ingerenze del potere costituito, dai servizi segreti alla politica, fugge e, allo stesso tempo, si rifugia in un passato originante che custodisce ricordi, inquietudini, segreti e bugie.

Se Patrizia, “nome d’arte” di Cinzia Vallesi, prostituisce il suo corpo per rimuovere i fantasmi di un passato innocente e misterioso, i suoi turbamenti, alla fine, soccomberanno a vantaggio di un abbrutimento morale che la condurrà ad agevolare l’eliminazione del suo “carnefice”, quel Dandy compratore d’anime e di cose che fa del danaro la sua unica fonte d’ispirazione. Le donne della serie Romanzo criminale sono le sponde, il riparo, la debolezza, l’aspirazione e l’amarezza di uomini che vivono di cervello e si corrodono di cuore. Il Libanese soffre il suo complesso materno davanti all’indifferenza e al disprezzo di una madre abbandonata dal marito e completamente assorta nella sua sofferenza di donna e di genitrice votata al rifiuto di ogni attenzione di quel figlio preda del suo confino interiore visionario e violento. Il commissario Scialoja vorrebbe per sé Patrizia, la donna del Dandy, ma non riesce a liberarsi dalla lotta al capo e alla banda, strumentalizzando, anch’egli in completo disprezzo morale, persino i sentimenti, propri e altrui. Freddo, che cova astio nei confronti del padre a causa di un tradimento, ama una ragazza che è ragione di tradimento, fino al punto da isolarsi da ogni bene, cedendo al gelo di un ordine brutale della cose davanti a cui niente può porre rimedio.

Il Terribile, il Sardo, il Nero, Satana, Er Puma , Nembo Kid, il Secco e via via tutti gli altri, tra i riferimenti alla mafia di Pippo Calò, alla camorra di Raffaele Cutolo e agli ambienti borderline dello Stato e dell’alta finanza, sono amici e nemici, partner e rivali, fedeli e traditori, di un sistema di segni e di verifiche che pare governato dall’alto, ma che, invece, si governa da solo. Una galassia di stelle destinate a diventare presto buchi neri. Starci dentro è una condanna le cui pene non sono gli arresti o i processi in tribunale, ma la perdita violenta e improvvisa di quegli affetti estranei a quel sistema, vittime della trasversalità ritorsiva tipica delle azioni criminali.

Quando Freddo decide di somministrarsi un’iniezione che lo faccia ammalare, affinché evitare il carcere, una tra le figure più significative dell’intera vicenda, vuotando in un istante, con un gesto estremo, quasi pari a un suicidio, l’ultimo stadio della sua impietosa esistenza, colpisce se stessa, transitando in via liberatoria dalla sua passione interiore. “In galera passi il tempo a pensare a quello che è stato e come sarebbe stato, e ti spegni come una candela”. Così Freddo si rivolge alla sua nuova sponda femminile, l’altrettanto glaciale Donatella (ispirata a Fabiola Moretti, una delle donne gravitate intorno alla storia della Banda della Magliana), confessandole in parlatorio il suo desiderio di andarsene dal carcere, anche a costo di ridurre il tempo della sua stessa vita. Quanto basta per affrancarsi pagando il lasciapassare a un eremitaggio che costerà sofferenza e malattia.

Una lunga lista di brani di repertorio, trasversali dagli anni ’70 ai suoni cupi e disincantati del decennio successivo, si alterna con la suggestiva frazione originale, a cura di Pasquale Catalano, scandendo, nella più classica delle tradizioni delle narrazioni “di formazione”, gli anni in cui si consuma la storia della banda. La Roma che ospita il romanzo criminale di un periodo a cui sono ancorati molti altri momenti oscuri e irrisolti della storia del Novecento italiano, è una città che assiste silenziosa e omertosa, compassata e imperturbabile, da metropoli invisibile, a un attraversamento di dimensioni umane divise tra il bene e il male, tra l’innocenza e la colpevolezza, in un’adozione collettiva che conosce quanto sia vile la sua ragione.

Davanti alla prima esecuzione della banda, sotto una pioggia scrosciante, all’inizio del racconto, Fierolocchio domanda al Freddo: “Adesso se pigliamo Roma?”, e questi, fissando il cadavere della sua vittima, risponde: “Famo domani”. Tutto il resto è in quel domani. Un domani che anche nella vita reale non si è ancora fatto vivo.

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