Dal lager alla strage: viaggio nell’orrore di Agostino Izzo
di Mario Tirino
Il romanzo di Angelo Vaccariello, Valle rosso sangue (Graus Editore, 2016, € 12), ha a che fare con una materia narrativa affatto semplice e scontata. Prova a raccontare, infatti, le indagini che, nel 1958, in un angolo dimenticato della provincia meridionale, portarono all’arresto e alla successiva condanna del contadino Agostino Izzo (e di suo figlio Carmine), per l’omicidio della moglie Filomena, del figlio Francesco e della moglie di questi, incinta di tre mesi, Iolanda.
La complessa vicenda dell’efferata strage si lega ad un altro plesso narrativo, tutt’altro che agevole: Izzo, quindici anni prima della strage, fu rinchiuso in un lager nazista e lì adibito all’orribile compito di smaltimento dei cadaveri su rudimentali lastre, per il quale si distinse per insensibilità ed efficienza. L’impianto finzionale allestito da Vaccariello, giornalista e scrittore al secondo romanzo dopo L’ospite inatteso (Il Mattino, 2015), nello spazio di un centinaio di pagine offre un ricco carnet di spunti e intuizioni.
In primo luogo, Valle rosso sangue è un atto d’amore per una terra – la Valle Caudina, a cavallo tra le due province di Avellino e Benevento – fuori dai radar dei media regionali e nazionali, poco conosciuta eppure meritevole, per la sua storia e le sue tradizioni, di essere finalmente raccontata fuori dai confini locali. L’autore, caudino di Cervinara, è molto abile nel disegnare la geografia di luoghi, selvaggi e impraticabili, in cui, alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, si svolge la storia. Nei vasti terreni in cui ha luogo la dura vita agricola delle famiglie contadine di Tufara, in masserie circondate da ettari di natura incontaminata e dura, l’autore conduce il racconto tra i campi coltivati, le cave abbandonate, i maestosi monti del Taburno e del Partenio, in un clima piovoso reso ancor più aspro dalle copiose nevicate dell’inverno del ‘58.
Vaccariello è molto abile, inoltre, ad unire alla descrizione ambientale una rappresentazione dell’humus antropologico della civiltà contadina, che di lì a poco, con l’industrializzazione forzata di buona parte della Valle, sarebbe stata ridotta a pochi temerari. La vita agricola è infatti scandita da ritmi inesorabili – le albe di fatica, i lavori dettati dalle stagioni, le urgenze nell’accudire animali e terre – e da cicli sociali puntellati dagli eventi collettivi. Le improvvise adunate del paese di fronte a eventi eclatanti (come il ritrovamento di un cadavere) sono raccontate con l’occhio clinico dell’osservatore e con la bonomia del narratore, che, avendole vissute, conosce le emozioni culturali di una gente quasi mai raccontata sulla scena nazionale.
Oltre a tracciare questa mappa geoculturale, l’opera seconda di Vaccariello colpisce il bersaglio sul fronte della rappresentazione del ruolo dei media. Per la prima volta, la Valle appare sullo scenario nazionale. I quotidiani regionali, da “Il Roma” a “Il Mattino”, spediscono fior di cronisti, il cui racconto di una delle periferie dello sconosciuto Mezzogiorno interno è imbevuto di pregiudizi. A molti dei giornalisti, giunti nella Valle prima da Napoli e poi da tutta Italia, la comunità locale appare come un insieme di arretrati, ingenui contadinotti, la cui vita è segnata dall’ignoranza, dall’abbrutimento e dalla mancanza di civiltà. Come ha ricordato recentemente lo stesso autore, impegnato in un lungo lavoro di ricostruzione storica nelle emeroteche e negli archivi giudiziari, persino Indro Montanelli – già allora una delle firme più apprezzate del giornalismo nazionale – arrivò in Valle Caudina e vi trascorse una settimana.
Come racconta Valle rosso sangue, non fu affatto pacifico l’impatto della grande stampa con una realtà ancora chiusa ed estranea ai riti e alle dinamiche della modernizzazione che in quegli anni vivevano le città e i contesti urbani in Italia. Per evitare ogni possibile strumentalizzazione dei punti di vista, Vaccariello propende per una soluzione, a nostro avviso, molto intelligente: assume, per gran parte del racconto, il punto di vista del maresciallo D’Amara, carabiniere napoletano dal carattere integerrimo ma non facile, trasferito, per divergenze con i superiori, al Comando di Montesarchio, profonda provincia beneventana. Questa opzione stilistica fa sì che il lettore assuma una prospettiva intermedia, tra il pregiudizio coriaceo dei cittadini (i giornalisti, la polizia scientifica, il magistrato) e un punto di vista interno dei “paesani”, minato da una ristretta apertura ai “forestieri” e dalle reticenze su fatti così traumatici da minare le fondamenta stesse della convivenza civile della comunità. Il punto di vista del maresciallo è quello di un uomo della città, che, però, impara progressivamente a conoscere l’umanità taciturna e abbarbicata alle proprie ritualità rurali, sospesa nelle gravose fatiche quotidiane della Valle.
Sebbene appaia agli inviati cittadini e ai professionisti che indagano un’area profondamente arretrata rispetto alle aree urbane della Campania, la Valle Caudina di fine anni Cinquanta vive in realtà un periodo di profonda trasformazione e avvio alla modernizzazione. Vaccariello ne è cosciente e non manca di inserire continui riferimenti a un processo di trasformazione allora incipiente, ma che, nel giro di pochi anni, avrebbe stravolto le basi socioeconomiche dell’area. Fattori dirimenti di questo processo di traumatico passaggio da una società agricola a una industriale e impiegatizia sono richiamati, seppure in sordina, nelle pagine di Valle rosso sangue: i mezzi di trasporto (l’Appia, la ferrovia Napoli-Benevento); le prime fabbrichette; i primissimi bagliori dell’Italia del boom (magistrali i richiami al ruolo centrale della radio nel diffondere i consumi culturali, in primis musicali – il ‘58 è l’anno di Volare di Modugno – e a uno dei pioneristici jukebox in un bar di Montesarchio); i riti sportivi collettivi che segneranno mediaticamente la cultura nazionale dei decenni a seguire (il bar sport che trasmette le radiocronache dei secondi tempi delle partite, con la Valle che palpita per il leggendario Napoli di Vinicio; gli attesissimi articoli della stampa che magnificano le gesta degli eroi in pantaloncini). Oltre alla focalizzazione del punto di vista, il romanzo presenta un’interessante suddivisione in tre nuclei narrativi.
Il primo è ambientato nel campo di lavoro di Berger-Belsen, dove Izzo, recluso lì in quanto militare italiano, è adibito a mansioni orribili (lo smaltimento dei cadaveri) e si distingue per la bestialità ottusa con cui ottempera ai compiti impartiti dai nazisti, che gli vale il soprannome di “’o sciacallo” dagli altri prigionieri italiani. Vaccariello usa il bisturi, scegliendo accuratamente le parole per mostrare il male scarnificante del lager, dove gli uomini sono ridotti all’animalesco istinto di sopravvivenza, che annichilisce ogni parvenza di dignità e umanità.
Il secondo nucleo narrativo rappresenta la parte più estesa del romanzo: ci riferiamo alle indagini condotte da D’Amara. Nonostante l’esito delle ricerche sia scontato per il lettore, lo scrittore irpino appare assai convincente nel costruire un’impalcatura tensiva che tiene desto il lettore, puntando su una detection focalizzata a svelare le modalità con cui Izzo e il figlio Carmine sono infine arrestati per omicidio e occultamento di cadavere.
Le indagini, con i tempi lunghi che le contraddistinguono, servono da momento cruciale di interrogazione individuale e collettiva, costringendo chiunque, a partire dallo stesso D’Amara, a fare i conti con l’orrore, la morte, la violenza, la turpitudine di un delitto familiare per quei tempi ancor più devastante di quanto appaia oggi. Tra le scene più convincenti ricostruite nella fiction di Vaccariello va citata sicuramente la predica domenicale di Frate Gabriele: si tratta di un fondamentale momento di passaggio per la cittadina di Tufara, messa di fronte alle radici del male profondo che qui hanno preso piede, a cui il sacerdote chiede – con un coraggio dirompente nel profondo Mezzogiorno degli anni Cinquanta – di mettere da parte l’omertà e di informare le forze dell’ordine di qualsiasi elemento utile alle indagini.
Il terzo nucleo narrativo è la ricostruzione dell’efferato delitto. Vaccariello utilizza la penna come un nostrano Truman Capote: la descrizione dei fatti è nuda e cruda, senza compiacimenti, ritrosie, manipolazioni o deviazioni. I gesti, gli oggetti, l’impeto dell’atto omicida, il vestiario, l’intreccio dei tempi, il ruolo di protagonisti e vittime: tutto è ricondotto alla fredda e precisa posizione nel corso dei fatti.
La connotazione geoculturale, la focalizzazione del racconto, l’impalcatura narrativa in tre nuclei sono tutti strumenti del mestiere che sicuramente l’autore utilizza con sapienza, grazie al certosino lavoro da cronista/cantastorie nel recupero di ogni dato utile a vivificare la storia con l’esattezza dei dettagli e delle date. Ma a trascinare veramente la storia, creando una acuta, dolorosa, pressione emotiva sul lettore, sono i personaggi. A partire dal “mostro di Tufara”. Izzo appare una sfinge inespugnabile, uno scrigno di orrori e segreti, un’ottusa macchina sopravvivente, la cui unica modalità di relazione appare la sopraffazione.
Eppure, anche rispetto a quest’essere ripugnante per la sua an-umanità, lo scrittore caudino non assume toni moralisteggianti, non giudica, non arriva a facili conclusioni. Ricostruisce, piuttosto, il percorso psicologico e cronistorico che arriva a deturpare la convivenza familiare della famiglia. Si scopre così che i turbolenti contrasti tra Agostino e il figlio Francesco – causa scatenante del raptus stragista – sono in realtà il frutto amaro degli anni del lager. Anni in cui non solo Izzo aveva vissuto il male nella sua forma di deumanizzazione radicale, ma aveva anche provato a dimenticare le sue origini, innamorandosi e convivendo con una donna tedesca prima di essere richiamato in Italia per gli accordi postbellici tra il nostro Paese e la Germania. Tornato a Tufara, il contadino-boia scopre che il primogenito Francesco si era assunto il compito di guidare la famiglia e che gli altri non vedevano di buon occhio il suo rientro, dopo anni di assenza senza alcuna comunicazione.
Il glaciale clima familiare produce in Izzo un sordo rancore che si dirige prevalentemente contro Francesco, falegname con un piccolo laboratorio, a cui il padre chiede con insistenza un contributo per le spese della casa. Il giovane artigiano, che ha sposato frattanto Iolanda e aspetta da lei un bambino, si rifiuta, spalleggiato dalla madre Filomena. La perdita di autorità sulla prole e sulla consorte scatena nel bracciante una violenza rude, atavica, primordiale, indicibile. Una carica di aggressività così estrema si sposa con la testardaggine e la furbizia contadina. Izzo depista le indagini, nega le evidenze, non cede agli interrogatori e costringe il secondogenito Carmine, complice della mattanza, a fare altrettanto. In questo scenario di efferatezza, la vera vittima risulta il terzogenito Giglio, chiamato Icilio, gracile tredicenne travolto dagli eventi e dalla scomparsa della madre e dell’affezionatissima cognata Iolanda.
L’altro personaggio che traina il racconto è senz’altro quello del maresciallo D’Amara. Lontano dagli affetti (la moglie e il figlio vivono a Napoli), D’Amara – come nella migliore tradizione della recente letteratura poliziesca italiana, da Lucarelli a De Giovanni – è un’anima tormentata, un uomo che mangia poco, dorme male, è inviso ai superiori e ha come uniche armi un formidabile fiuto e un marcatissimo senso del dovere. Pragmatico e intuitivo, nello stesso tempo è anche uomo di sentimento, e perciò apprezzato per la sua umanità dai paesani. Vaccariello trasmette questa sensibilità particolare tratteggiando i piccoli gesti del maresciallo, come, ad esempio, la carezza paterna assestata sul capo di Icilio, il cui smarrimento di fronte a eventi di tale portata richiamano alla sua memoria la figura del figlio lontano.
Altrettanto valida appare la costruzione dei personaggi minori. Tra i tanti che potrebbero essere citati (il magistrato, il medico legale, il professore universitario che ha conosciuto Izzo a Berger-Belsen, e così via), ci piace ricordare, anche per motivi personali, i genitori di Iolanda Francesca, la moglie di Francesco, innocente e incinta di tre mesi, che cade sotto le mani assassine di Agostino e Carmine. Nel disegnarne i volti fieri, le mani tozze, la casa umile, la dedizione alla terra quale vocazione atavica a cui è impossibile sottrarsi, Vaccariello restituisce un formidabile ritratto della dignità e della fierezza della classe contadina di un tempo, che in pochi anni sarebbe stata travolta dall’anonimo sogno industriale, capace soltanto, dopo vent’anni di illusioni di benessere (tra i Settanta e i Novanta), di lasciare la Valle all’attuale deserto di prospettive e al rischio di spopolamento.
In ultima analisi, il romanzo, come abbiamo accennato, racconta una vicenda realmente accaduta di cui, in effetti, si è alquanto persa traccia nella memoria delle genti caudine. Questa osservazione stimola, dunque, una riflessione sul potere della fiction di colmare i vuoti della trasmissione della memoria locale e generazionale. Sulle numerose dimenticanze e amnesie rispetto alle vicende di un sessantennio fa, hanno pesato certamente l’orrore del sangue versato (una tragica strage familiare che ha gettato un’ombra sinistra sulla comunità tufarese) e il fatto che parte della famiglia Izzo viva ancora a Tufara.
Proprio per la sua capacità di offrire al lettore una chirurgica ricostruzione storicistica, arricchita dal potere di una narrazione finzionale perfettamente in grado di stimolare la reazione affettivo-emotiva del lettore, Valle rosso sangue si configura come preziosa opera di raccordo tra storia e memoria attraverso la ricchezza simbolica della letteratura di genere.