Fellini e Totò: storia di un incontro (quasi) mancato
Lo scorso 15 aprile la morte di Totò, probabilmente il più grande attore italiano di sempre, ha compiuto 50 anni. Qualcuno scrisse allora, ed era vero, che molti lo avrebbero rimpianto e che la sua grandezza non era stata ancora (ri)scoperta ma che il tempo, come si suol dire, sarebbe stato galantuomo. È nota, infatti, la diffidenza e il sussiego con i quali molti critici guardarono al lavoro cinematografico di Totò e ai suoi film, spregiativamente definiti come “totoate”, sebbene autori importanti come Mario Monicelli, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Mauro Bolognini e infine Pier Paolo Pasolini si fossero accorti di lui e avessero già intuito e messo in pratica, almeno in parte, il suo potenziale. Ma un regista con il quale Totò avrebbe sempre voluto lavorare fu Federico Fellini, autore che, visto il suo grande amore per il mondo del circo, molto avrebbe sicuramente potuto tirar fuori da una maschera clownesca come quella del grande attore napoletano. I due, come è noto, non girarono mai un film insieme ma, come cercheremo di riassumere in questo contributo, pur percorrendo strade parallele destinate a non incontrarsi mai artisticamente, nutrirono sempre una fortissima stima l’uno per l’altro.
Il primo incontro (o meglio il primo momento in cui uno dei due vede l’altro all’opera) avviene alla vigilia della seconda guerra mondiale: Fellini si aggira per una Roma oscura e fascinosa ed entra in un piccolo cinema di quartiere. In quegli anni, prima e dopo le proiezioni dei film, si usava dare spazio all’avanspettacolo, forma di teatro comico considerato di scarsa qualità rispetto sia al teatro di rivista che al vero e proprio teatro drammatico, ma di sicuro piglio popolare. Totò, una delle massime vedette di questo tipo di rappresentazioni, in quell’occasione non viene fuori da dietro le quinte ma preferisce apparire direttamente in mezzo alla platea. Raggiunge rapido e saettante il palcoscenico, sfiorando la spalla del futuro grande regista e, una volta su, saluta il pubblico esclamando: “Buona Pasqua a tutti!”. Ma siamo nel mese di novembre.
Qualche mese più tardi, il vero e proprio faccia a faccia. Fellini fa il giornalista presso una piccola rivista di avanspettacolo intitolata Cinemagazzino. Il direttore gli chiede di intervistare qualche attore e Fellini decide di provare a incontrare Totò. Il comico si mostra un po’ riottoso ma accetta comunque di farsi intervistare e ordina al giovane giornalista: “Scrivete che a me piacciono ‘e femmene e il denaro!”. Poi, in seguito allo sbalordimento di Fellini, aggiunge: “Ma perché, a voi non piace?”. Non che Totò fosse un cinico: in realtà, chi ha letto e studiato la sua biografia conosce la sua infanzia povera, la sua storia di bambino illegittimo, tardivamente riconosciuto dal padre, la sua lunga e faticosa gavetta: fare un’affermazione del genere era un modo per annunciare al mondo il suo successo e per sottolineare di essersi lasciato alle spalle un passato di fatica e di stenti. Fellini scriverà poi un’intervista inventata di sana pianta cui, da quanto risulta,Totò non dà la minima importanza.
Le strade di Fellini e Totò si separano per alcuni anni per rincontrarsi brevemente alcuni anni dopo, nel 1952, in occasione del film Dov’è la libertà? di Roberto Rossellini. Nella scena finale di questo film bellissimo e sottovalutato, una delle rare incursioni del grande comico in una storia dai forti accenti tragici, si vede Totò aggredire il suo avvocato difensore e staccargli un orecchio a morsi allo scopo di farsi arrestare e tornare in prigione, paradossalmente l’unico luogo in cui abbia incontrato gente onesta. Ebbene, a causa di un’indisposizione di Rossellini, è proprio Fellini ad essere chiamato, in sostituzione dell’amico, per girare la suddetta scena. Sarà questo l’unico momento storico in cui Totò e il maestro riminese si troveranno l’uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa. Durante le riprese, Fellini si rivolge a Totò chiamandolo “Principe”, sapendo quanto questi tenga a sottolineare i suoi titoli nobiliari ma Totò gli dice: “Voi mi potete chiamare Antonio”, concessione che faceva solo agli amici più intimi e che equivaleva ad una vera e propria nomina cavalleresca.
Dopo qualche altro breve incontro sempre di carattere informale ed intimo, tra i quali una cena a casa del regista insieme a Franca Faldini, ultima compagna dell’attore, i due si rivedono verso la fine degli anni ’50 durante una pausa pranzo mentre lavorano su due set diversi e contigui. Totò era già diventato ormai irrimediabilmente cieco ma, saputo che Fellini è là, ci tiene ad incontrarlo, gli tende le mani brancolando e lo saluta calorosamente dicendo: “Ormai siete diventato un ‘reggistone’!”. Dopo la pausa, Fellini segue Totò per vedere come faccia a recitare in quelle condizioni. Con sua grande sorpresa il principe della risata, fino a quel momento tenuto a braccia e indifeso come un implume, appena sentito il “Ciak!” entra in scena saltando, piroettando, lanciando oggetti proprio come se ci vedesse. Miracoli del cinema. O forse soltanto la grande padronanza della scena.
Quando chiesero a Fellini perché non avesse mai pensato a Totò per un suo film, egli rispose che sì, ci aveva pensato eccome. In particolare, per Il viaggio di G. Mastorna, il suo più famoso progetto abortito, Fellini aveva pensato proprio a lui. Poi confessò di avere rinunciato all’idea di utilizzarlo perché Totò era una sorta di attore-maschera, l’ultimo anello ed il più grande erede della Commedia dell’Arte: le maschere, si sa, non possono interpretare altro che se stesse, Pulcinella può fare solo Pulcinella e tale sarà per sempre, e così tutte le altre. Nel 1980, nel libro Fare un film Fellini scriveva: “Il risultato di secoli di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò. Il punto d’arrivo di qualcosa che si perdeva nel tempo e che finiva in qualche modo con l’essere fuori del tempo”. Queste le parole con cui il Maestro ricordava il grande attore napoletano, forse il più generoso e sentito epitaffio che una maschera ed un clown abbiano mai ricevuto.
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