L’accecante bellezza di villa San Michele
«Non è di San Michele e dei preziosi frammenti di marmo della villa di Tiberio che scrivete, ma soltanto portate alla luce qualche frammento di argilla della vostra vita infranta». Queste le parole rivolte da un giovane impetuoso al vecchio, che con mano tremante e “occhio cieco”, si accinge a scrivere delle circostanze che hanno portato alla costruzione di villa San Michele, uno dei luoghi più enigmatici dell’isola di Capri.
I due uomini sono seduti a un tavolo, l’uno davanti all’altro. Il giovane è medico, e per sua stessa ammissione si è laureato troppo presto; il padrone di casa è vecchio, ha le spalle curve per il rimpianto di non vedere più la sua dimora blu. Giocano una strana partita, che in altri luoghi è stata rappresentata anche come una gara di scacchi. Apparentemente sono seduti ai lati opposti del tavolo, ma presto si scopre come il vero avversario sia un altro: la Morte dai molti volti. In questa storia ha le sembianze d’un teologo dell’università di Jena.
La Storia di San Michele divenne in breve tempo uno dei libri più letti e apprezzati del Novecento. Come erroneamente è stato fatto fin dalla sua pubblicazione, avvenuta nel 1929, i critici hanno definito l’opera una “storia della morte”, si tratta invece dell’esatto opposto.
Non bisogna farsi ingannare dal titolo, San Michele non è un’agiografia, è il racconto di una vertigine geniale e della tensione verso un paradiso terrestre artificialmente costruito, fatto di contadine dagli occhi neri che portano anfore di vino forte, uccelli migratori catturati dai macellai, cani fedeli, sfingi e luce blu sui faraglioni bianchi. Questo è il paradiso presso cui ha costruito un tempio Axel Munthe, medico svedese e scrittore di eden e inferni campani. Il suo doppio letterario è l’uomo superbo, animato dal desiderio di sconfiggere la morte.
Racconta di un santuario costruito in gloria della vita e della bellezza, sorto quasi spontaneamente dove il tempo non ha importanza, dove le fanciulle quindicenni parlano una lingua antica, e gli averi di un imperatore romano non sono per la gente del luogo che “roba” appartenuta a un “camorrista”. Villa San Michele edificata ad Anacapri da Munthe è un monumento di resistenza alla morte, e il libro eponimo è la narrazione del fallimento di questa vana, perciò tanto umana, opposizione.
«Guardati dalla luce! Troppa luce non è buona per gli occhi dell’uomo mortale» è il monito dell’ombra che promette al protagonista diciottenne, al suo primo soggiorno caprese, il possesso della chiesetta di San Michele, la futura villa. In cambio tuttavia al giovane viene chiesto un “prezzo enorme”. Lo pagherà. L’artefice della villa ha cercato di costruire un rifugio per nascondersi dal buio e dalla bruttezza, sorelle della morte, stringendo un patto che già recava il seme di un tragico epilogo: “Prima di morire dovrai pagarmi un prezzo enorme. Ma prima che questo prezzo sia dovuto avrai veduto per molti anni da questo luogo il tramonto di tanti giorni di felicità senza nubi.” Munthe accetta a qualunque costo, purché possa beneficiare della bellezza della sua villa e dell’isola: “Voglio che la mia casa sia aperta al sole, al vento, alla voce del mare, come un tempio greco, e luce, luce, luce dovunque!” Prossimo alla cecità si troverà costretto a scappare dal sud Italia per ritornare nella grigia Svezia. Il regalo per cui tanto aveva lavorato lo stava privando del senso prediletto: il suo tempio era di una bellezza accecante, il genere di bellezza che gli uomini non dovrebbero vedere mai.
La ricerca di una splendore immortale, quindi precluso all’uomo, e la cecità che questa gli ha fruttato accosta il protagonista ad alcuni personaggi della mitologia classica: a Tiresia, che mosso dal desiderio di vedere nuda la dea Atena è stato punito con la cecità. A Orfeo, perché come Munthe, spinto dalla presunzione e non dall’amore, ha accettato un regalo avvelenato. Le divinità che regnano sui Mani concessero al poeta tracio una possibilità di riportare Euridice alla vita. L’unica cosa che egli avrebbe dovuto evitare era guardare l’amata che lo seguiva fuori dall’Ade. Il finale è noto: Orfeo si voltò. I critici di ogni epoca si sono spesso chiesti perché il poeta contravvenne al monito divino perdendo l’amata e in poco tempo la sua stessa vita. La risposta è: perché umano. Poiché solo il divino non ha morte, rinnegarla è ripudiare la vita, e l’umanità che a questa si accompagna.
Orfeo volendo elevarsi a piegare gli dèi, desiderava beffare la morte. Fu superbo, oltre che ingenuo, e le divinità gli promisero un dono che non avrebbe mai potuto accettare. Persefone, regina infernale, provò a lui che, per quanto superiore agli altri esseri umani, nulla poteva contro la morte. Orfeo fu punito dalla sua stessa natura, l’intervento divino non fu che il braccio dell’inevitabile. Se c’è un dio a San Michele questi è proprio colui che innalza il tempio dell’aria e della luce, è una divinità bifronte, giovane e vecchia: il protagonista e il narratore. Il teologo che promette e lo studente che accetta. “Per me la battaglia è finita e persa. Sono stato cacciato da San Michele, opera di una vita. L’avevo costruito con le mie mani, pietra su pietra, con il sudore della mia fronte; l’avevo costruito in ginocchio per farne un santuario al sole, dove avrei cercato la sapienza e la luce dal glorioso dio che ho adorato tutta la vita. [..]
«Guardati dalla luce! Guardati dalla luce!»
Ho finalmente accettato il mio destino. Sono troppo vecchio per combattere con un dio.”
Il dio tanto temuto non è che l’umanità stessa del Munthe bestemmiatore.
In questo viaggio di formazione il protagonista passa dall’essere studente con una foto sbiadita di Capri, a eremita semicieco che incontra San Francesco in un paradiso, più o meno cristiano, aperto anche ai cani. Ma a che genere appartiene la Storia di San Michele? Memorie? Romanzo? Anche se la moderna comparatistica sta cercando di rendere più malleabile ed elastica l’interpretazione delle forme letterarie, il lettore non può fare a meno di chiedersi di che tipo sia il libro di Munthe, e quanto ci sia di vero nelle visioni e negli incontri descritti. Senza voler fare accostamenti troppo arditi, è possibile citare il critico americano Harold Bloom che scrisse, a proposito della Commedia: “ritengo che il poema non sia né la verità né un’invenzione, bensì la conoscenza di Dante”, e identificò in Beatrice l’incarnazione della conoscenza del poeta. Nella Storia di San Michele, emanazione di questa consapevolezza materiale e onirica è la villa, che fin dal suo progetto smette di essere un luogo per diventare una summa di Munthe stesso, di tutta la sua esperienza umana e spirituale, di là dei concetti di verità e invenzione.
Lo stesso autore ammette nella prefazione del 1931: “Sarà per me come un complimento non essere creduto, perché il più grande compilatore di storie sensazionali è la vita. […] Ma è sempre vera la vita?”