Totò “L’ombroso”

(…) e la gente ride anche oggi, modestia a parte. Glielo dico io perché. Perché la comicità ha sempre un fondo macabro, tragico. La mia comicità è di questo tipo. Non c’è niente che provochi singulti di ilarità, assalti mal trattenuti di fou rire quanto un funerale, che è lo spettacolo della morte.


Da un’intervista a Silvio Bertoldi, Totò, a cura di Goffredo Fofi, La nuova sinistra-Samonà e Savelli, 1972

 

La cupezza di una percezione incline al drammatico alimenta da sempre i misteriosi meccanismi che danno forza alla comicità. Triste nell’animo come ogni buon clown triste, Totò in questo non differisce dall’archetipo del buffone che nasconde i propri dolori dietro lo sberleffo. Analogamente, con una vitalità sanguigna che lo apparenta al Pulcinella delle guarattelle napoletane, il suo personaggio scenico gioca con la Morte, beffandola e strappandole il ruolo da prima attrice, la riduce a spalla da ridicolizzare con perfidia in più occasioni.

L’alter ego del Principe De Curtis, non si è tenuto mai troppo lontano dal macabro, attingendovi spunti per situazioni grottesche dove lo stridere delle due realtà genera una risata liberatoria, sia pure a denti stretti.

Totò trapassa. Lo fa sul grande schermo per la prima volta nel film Totò e i re di Roma e ci prova gusto per ripetere il gran salto in altre pellicole, fino al reale addio definitivo della primavera del ’67, coronato dal triplice funerale tenutosi tra Roma e Napoli.

Il film del ’51 diretto da Steno e Monicelli di lugubre ha solo il grigiore impiegatizio della vita di Totò/Ercole Pappalardo, mentre sfocia nell’ultraterreno seguendo le traversie del defunto travet perso in un altro mondo oppresso da una farraginosa burocrazia. Si tratterà solo di un incubo, espediente più volte sfruttato come biglietto di andata e ritorno.

Il flirt di Totò con l’horror risale a tre anni prima, in una gustosa parentesi del film L’imperatore di Capri, qui l’imbucato gagà Antonio De Fazio si dilegua dall’atmosfera festaiola del’isola per un appuntamento galante con l’eccentrica baronessa Von Krapfen. Sarà accolto da Marisa Merlini che sorge, algida e tetra, da un sarcofago egizio, in un ambiente lugubre quanto eccessivo che fa il verso alle stile decadente di Theda Bara.

L’elemento macabro, analogamente a quello ritrovabile in famose gag di Laurel e Hardy, fa da contrasto alla commedia, offrendo il destro ai surreali discorsi di Totò di esorcizzare le paure profonde, facendosi voce della ragione. Questa antitesi tra bene e male non sarà sempre così netta, comunque, introducendo più avanti nel comico una vena di follia che aggiungerà sfaccettature inquietanti al suo personaggio, già minacciato dagli spettri onnipresenti di fame e miseria.

Nel ’55 ritroviamo Totò all’Inferno nell’omonima pellicola di Camillo Mastrocinque. La visita del triste Antonio Marchi nell’Aldilà si rifà agli scenari danteschi parodiandoli in un ritratto deformato dell’Italia del tempo. L’incubo è ancora fatto di cartapesta e non fa veramente paura, per quanto annoveri tra i suoi sceneggiatori un giovane Lucio Fulci, destinato a una futura carriera spesa all’insegna dell’orrido.

Le clownesche disavventure di Totò lo portano negli anni a misurarsi con i consueti nemici: autorità, sfortuna, stupidità, uscendone sempre pulito, anche nell’infamante conflitto con il pregiudizio sociale raccontato in Arrangiatevi! di Mauro Bolognini. Negli anni ’60, dominati dall’interesse del pubblico per la cronaca nera, anche la sua figura si adegua all’ambiguità morale dei protagonisti “negativi”, trovando nuovi spunti di espressione nelle loro efferatezze. È il 1962, tre mesi prima dall’uscita del fumetto Diabolik, Steno ne dirige un prototipo comico in Totò diabolicus. Con un giallo a tinte forti a disposizione, il Principe si scatena. La sua interpretazione ben sei personaggi (di cui quattro assassinati) convince la critica e gli consente di tratteggiare figure deformate e nevrotiche, proiezioni del fondo di sadismo con cui vessa le sue spalle più disarmate, come Peppino De Filippo o Pietro De Vico.

Un’altra incursione nel gotico è la veglia funebre de Il monaco di Monza, dove risata e brividi si rafforzano a vicenda nella commedia di Sergio Corbucci ambientata in un castello maledetto degno di Walpole. Spicca la grinta di Nino Taranto nel ruolo di antagonista che terrorizza Macario, Totò e lo spettatore in una scena sepolcrale ricca di humour nero, in cui i due bonaccioni s’improvvisano avvelenatori, dimostrando un insospettabile cinismo sotto il candore della maschera.

L’apoteosi del Totò più oscuro si compirà nel cult-movie Che fine ha fatto Totò Baby?, evidente caricatura del film di Robert Aldrich interpretato da Bette Davis, in cui si verifica una vera inversione di parti che porterà il perturbante a prendere il sopravvento sulla commedia per rivelarne la “cattiveria” e il pessimismo esistenziale. La sceneggiatura del film di Ottavio Alessi poco incisiva com’è, costringe il comico a frequenti improvvisazioni, calandolo in un fumettone noir condito da allucinazioni da maggiorana/marijuana, cadaveri, omicidi cruenti e crudeltà da serial killer.

Senza soccombere al gravame del tema, in apparenza lontano dalle corde del suo personaggio, Totò ritaglia il proprio ruolo più delirante, camminando sul bilico tra parodia e aberrazione fino all’insolito finale – per niente consolatorio – che lo vede internato in un manicomio criminale, ormai irreparabilmente perso.

È passato tempo dalle chiuse in cui il salto nell’Aldilà, la tragedia o l’anomalia si rivelano solo l’effimero spauracchio di un sogno. Stavolta non c’è più spazio per redenzione e sconti di pena. Nel corso dello stesso 1964 all’ombra dei lazzi dell’attore germinano i versi amari della poesia ‘A livella. L’universo Totò è fatto anche di questo.

©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!