Primo Maggio, la fatica dell’umanità di un albero su cui “le foglie non sono tutte uguali”

Il lavoro. Parola attraversata dalla storia in lungo e in largo. Tramite il rifiuto e l’approvazione, la contestazione e la professione, una necessità imposta a ogni epoca e che, molto spesso, con tanta fatica, con sentimenti conflittuali, dentro una camera-prigione a vista sopra i tormenti dell’uomo, sorveglia diritti e doveri. Rivista Milena ricorda il Primo Maggio avvalendosi della citazione di due documenti di repertorio appartenenti allo stesso patrimonio artistico. Due momenti distanti nel tempo, apparentemente opposti, ma per molte ragioni vicini.

Abbiamo scelto per l’occasione una scena del film A che servono questi quattrini?, una pellicola diretta da Esodo Pratelli e tratta dall’omonima commedia di Armando Curcio. La storia narra del marchese Eduardo Parascandolo che, dopo aver dilapidato il suo patrimonio per non essersene curato a dovere, trascorre il suo tempo professando la sua filosofia di vita a un gruppo di giovani. Una filosofia che sostiene la dannosità del danaro e che ambisce a una società in cui l’uomo non è costretto a lavorare e piò dedicarsi all’ozio e alla contemplazione. Dopo aver aiutato un giovane a conquistarsi l’approvazione al matrimonio con la sua innamorata dei familiari della ragazza, il marchese Parascandolo riacquista la proprietà dei suoi beni. Nonostante il nuovo possesso dei suoi vecchi averi, decide, però, di continuare a vivere nella sua soffitta, così da perseguire, nel segno simbolico di quella dimora semplice e povera, la sua filosofia.

Proprio in uno dei momenti in cui i suoi “discepoli” lo seguono nelle scale che conducono alla sua soffitta, Eduardo spiega loro il senso delle sue idee, illustrando il dolce oblio del non lavorare durante la loro verticale risalita peripatetica. “Il lavoro fa male. Quando un medico visita un ammalato, dice riposo assoluto. Non ho mai sentito dire lavoro assoluto. C’è gente che lavora per una vita per poi riposare a settant’anni”. E continua: “Il mio segreto è l’indifferenza. Solo con l’indifferenza l’uomo si eleva”.

 

 

Eduardo De Filippo amava il suo lavoro. Gli ha dedicato tutta la sua vita. Ha fatto del sacrificio la prima regola del suo teatro. In un’intervista, L’arte di invecchiare, a cura di Donat-Cattin, una delle ultime interviste, in cui Eduardo, a proposito della sua esperienza di vita e di abnegazione, dopo essersi soffermato con dolcezza sul talento di un meridione per cui a suo dire non va chiesta beneficenza, ma non va nemmeno condannato all’abbandono, alla richiesta: “Un segreto per vivere tutti i giorni normalmente. Un messaggio a chi non è capace di elaborare intellettualmente come te”, risponde: “Ci sono uomini che non si assomigliano. È un albero, le foglie non sono tutte uguali”. Il seguito è un progresso a cui non siamo ancora andati incontro.

 

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