Iron Fist, il passo falso di Netflix
Nel quadro delle produzioni di Netflix, la grintosa piattaforma americana di streaming on demand, il mondo dei supereroi Marvel ha trovato una degna impaginazione attraverso il primo ciclo di Daredevil e con i serial successivi, tutti improntati al linguaggio adulto e rivoluzionario introdotto da Frank Miller negli anni ‘80.
Il realismo a tratti crudo delle sceneggiature, il taglio cinematografico di messa in scena, il ritmo anomalo per le gabbie dei telefilm soggiacenti a rigide partizioni pubblicitarie, ne hanno fatto un prodotto unico nel pantheon dei fumetti trasposti per il piccolo schermo. Rammarica dunque in particolar modo il senso di occasione mancata che ha accompagnato l’uscita di Iron Fist, l’ultimo atteso tassello di questo adattamento,
Il serial debutta il 17 marzo 2017 nella peculiare formula simultanea dell’azienda californiana, e coerentemente al doppio 17 presente nella data d’uscita, rimane subito invischiato in una serie di errori che funestano tutte le sue 13 puntate, sempre all’insegna della vaghezza d’intenti e della scarsa credibilità.
Per fotografare le pecche di questa serie interlocutoria (in quanto cerniera tra le tre precedenti e il team-up che ne riunirà i titolari in The Defenders), basta attenersi a una semplice assunto: il minimo che si può chiedere a un eroe è che sia quanto meno eroico. Soprattutto se si tratta di un superuomo.
Il rinnovamento degli stereotipi operato dalla Marvel ci ha abituato alla debolezza umana insita nei suoi paladini, così come ha fatto poi Alan Moore mostrando l’ambiguità delle loro scelte etiche, ma le regole dello spettacolo esigono una caratterizzazione definita dei propri protagonisti, che nel nostro caso sembra non avvenire, andando allo sbando tra un ceffone in faccia e un piagnisteo, alla ricerca di un’identità che non vedremo mai sbocciare.
Poche righe di storia, fumettisticamente, Iron Fist nasce negli anni ’70, creato da Roy Thomas e Gil Kane sull’onda della popolare stagione filmica sul kung-fu. Il personaggio sia attiene alla linea del miliardario/giustiziere resa celebre da The Shadow, Batman e Freccia Verde, apportandovi la variante del suo tirocinio Himalayano presso la mitica K’un L’un, nel cui eremitaggio padroneggia tecniche di combattimento e acquisisce il potere di rendere il pugno destro un arma indistruttibile.
Il percorso editoriale di Danny Rand porta il fumetto in direzioni discordanti, che lo vedono negli anni diventare socio del supereroe di colore Luke Cage, per poi fungere da sostituto temporaneo di Daredevil, morendo infine nel numero conclusivo della testata Power man and Iron Fist. Nel suo trasferimento televisivo, l’arco narrativo ricostruisce il ritorno da K’un L’un di Danny (Finn Jones) e la sua riconquista della società di famiglia rimasta in mano ai fratelli Meachum, figli dell’equivoco socio paterno Harold Meachum.
Con l’entrata in scena dell’ esperta di arti marziali Coleen Wing (Jessica Henwick), la minacciosa presenza della madame Gao, già vista come antagonista di Daredevil e il ritorno dell’infermiera Claire Temple/Rosario Dawson, banalizzata da un ruolo di grillo parlante, si definisce il conflitto che dovrebbe fare da motore alla vicenda, ossia l’infiltrazione nella Rand Enterprise dei ninja de La Mano, la setta esoterico-malavitosa creata da Miller nel 1981.
Gli scricchiolii del soggetto di Scott Buck si fanno sentire ben presto e nel procedere della storia ne inficiano la credibilità accumulando incongruenze, mancanza di messa a fuoco e cadute di stile. Difetti troppo evidenti per non affossare i caratteri distintivi delle produzioni Netflix, basate sul carisma dei suoi personaggi e sulla loro resa in termini realistici. La mole di ingredienti messi a cuocere nella trama tradisce la mancanza di un’idea forte di partenza, a partire dal fragile guerriero Iron Fist, perennemente sbigottito, manipolato e vittima degli eventi cui reagisce senza evolvere le proprie motivazioni. Intorno alla sua figura troppo indefinita per sostenere la storia
ruotano antagonisti altrettanto inconsistenti, che in un caso ammiccano a modelli incerti tra il noir e l’horror – il resuscitato Harold Meachum/David Weanham, oppure sono continuamente riposizionati, come l’ondivago “cattivo-buono” Ward Meachum, interpretato dal bravo e sprecato Tom Pelphrey.
La stessa Mano confrontata alla rappresentazione mistica e quasi invincibile vista in Daredevil 2, appare qui una raffazzonata banda di tagliagole, minata da faide interne e priva di qualunque fascino, sgonfiando di molto la resa drammatica della trama fitta di tempi morti e scontri sopra le righe, mentre procede a tentoni alla ricerca di un filo conduttore.
In sintesi: un protagonista dalla scarsa identità, un florilegio di avversari mal assortiti, un soggetto che stenta a decollare hanno fatto riscuotere al serial un fuoco di fila di critiche, pressoché unanime.
Dopo il recente, dignitoso, ciclo dedicato a Luke Cage, dopo la serie imperfetta ma coinvolgente su Jessica Jones e le succitate due stagioni del Diavolo di Hell’s Kitchen, ci si poteva aspettare di meglio da questo show nato sotto ottime premesse che getta ombre e dubbi sul prossimo appuntamento collettivo di The Defenders. Se come dice la pubblicità “due è meglio di uno”, con quattro protagonisti in scena si dovrebbe nutrire qualche speranza. Teoricamente, almeno. La disastrosa riuscita cinematografica dell’ultimo Fantastici Quattro ci dice che non sempre la somma è quella che fa il totale.