Storie dalla fine del mondo
Qualsiasi abitante di un’affollata metropoli sogna ogni tanto di poter sfuggire alla folla per passeggiare in una città silenziosa, più deserta di quanto non appaia nei pomeriggi dell’esodo estivo. Nel contempo, la prospettiva di confrontarsi con la solitudine assoluta tinge di angoscia la scena, dandole i tratti di un naufragio in un’immensa isola di cemento. È l’’ancestrale paura dell’abbandono, il timore proveniente dal profondo che la narrativa ha esplorato costruendo incubi in cui l’iperbole dell’assenza genera i Robinson Crusoe di una realtà privata dei suoi punti di riferimento.
Nel ’67 il francese Michel Tournier reinventa l’originario romanzo settecentesco nel bellissimo Venerdì, o il limbo del Pacifico, allestendo un teatro psicologico in cui alla positività del personaggio di Defoe si sostituisce la drammatica perdita di scopo e identità sociale del nuovo Robinson.
Come osserva Marx, “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, l’azzeramento di ogni sovrastruttura dunque porta alla cancellazione dell’individuo, in una crisi che il semplice istinto di sopravvivenza non può risolvere o distrarre.
Il sopravvissuto di Tournier, costretto a un isolamento coatto, si abbandona all’apatia oppure inventa legislazioni e cariche autocratiche per dare forma all’anarchia della natura in un’illusione di civiltà. L’incontro con Venerdì finirà per farlo abdicare alla condizione selvaggia dell’indigeno, abbandonando i propri schemi fragili e supponenti di occidentale. Con maggiore conflittualità drammatica, l’Adam Jeffson di M. P. Shiel sperimenta la perdita totale dei propri simili, annientati da un mortale evento gassoso nelle pagine de La nube purpurea.
Ultimo uomo di una Terra disabitata, Jeffson torna incolume da una missione al Polo per ritrovarsi esule all’inverso in uno spazio che non ha più né tempo e misura di sé. Questo Adamo di inizio secolo tenterà per anni di trovare altri superstiti alla catastrofe, esplorando con ogni mezzo un pianeta-cimitero, ridotto a un inventario di “cose” svuotate di ogni senso. Alla constatazione della propria unicità, se ne eleggerà allora supremo signore e giudice, per incendiare intere metropoli in una pulsione di morte che non trova più argini lasciandolo scivolare nella megalomania. Un’ulteriore dimostrazione che l’uomo privo di confronto e obiettivi sociali finisca devastato dall’horror vacui, alla maniera di un pesce abissale portato in superficie che esplode per la propria pressione interna.
La fame di conoscenza figlia del positivismo scientifico funge da sostegno morale al cronologo de L’uomo che restò solo sulla Terra. Nel romanzo del padre della paleontologia George Gaylor Simpson si sperimenta un altro tipo di solitudine, quella di uno scienziato proiettato incidentalmente nel Giurassico a causa di un errore di laboratorio. Prigioniero in un ambiente che precede di milioni di anni la venuta dell’uomo, Sam Magruder prova una disperazione sconfinata, resa più tragica dalla consapevolezza di essere un’eccezione. Solo l’assoluta impellenza dei problemi pratici, la mente analitica da scienziato e l’accettazione di un destino comunque straordinario lo rendono testimone di un mondo la cui bellezza primigenia diventa la sola compagnia.
In mancanza di propri simili, l’essere vivi in un mondo stravolto da una pandemia devastante rappresenta una condanna per chi si ritrovi a essere l’ultimo rappresentante della propria razza. Il Robert Neville di Io sono leggenda diventa per questa condanna un essere malinconico, solitario e braccato, il solo umano di una città che si rianima ogni notte della non-vita dei suoi abitanti vampiri. Richard Matheson ne racconta la dolorosa esistenza giocando con la figura del “mostro” attraverso un ribaltamento di ruoli, quello che rende Neville il vero diverso, tagliato fuori dalla propria specie e non assimilabile da quella che l’ha sostituita. Questa tragedia così singolare e toccante si presterà a vari adattamenti cinematografici, tornando più volte a raccontarsi in angolazioni diverse attraverso il film di Ubaldo Ragona del ’64, L’ultimo uomo della Terra, ambientato tra le strade di un EUR spettrale, l’avventuroso 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra di Boris Sagal, fino al più recente (e meno fedele) Io sono leggenda di Francis Lawrence.
Il mondo del fumetto, spesso àmbito di citazioni e rielaborazioni di temi letterari, trova spunti nel racconto apocalittico da cui estrae spesso delle interessanti varianti. Una storia emblematica che si presenta come una matrioska, contenitore di più riferimenti è L’ultimo uomo sulla terra di Tiziano Sclavi, in cui i disegni di Corrado Roi illustrano con la consueta rarefazione la Londra abbandonata in cui si ritrova a vagare Dylan Dog. In questa avventura l’indagatore dell’incubo è intrappolato in un’allucinazione inspiegabile, circondato da uno scenario fatiscente e funereo che si rivela provocato da una forma fulminante di raffreddore.
L’ispirazione Kinghiana è evidente, con l’omaggio al virus del celebre L’ombra dello scorpione, e il gusto per il gioco citazionistico si moltiplica nei titoli dei libri che occhieggiano dalla libreria di Dylan, permettendoci di trovarvi appunto The stand, di King, oltre a I am legend di Matheson e The purple cloud di Shiel. Il conclusivo rimando letterario è la scoperta del protagonista di essere in realtà uno degli ospiti mesmerizzati de La zona del crepuscolo, un non-luogo in cui il tempo si arena cristallizzandosi in un eterno presente, contraendo qualche debito con l’angoscioso caso del signor Valdemar raccontato da Poe e ancora di più col romanzo In una piccola città di Frank Belknap Long. Il continuo ritorno al tema di vari medium espressivi rende affollata la solitudine estrema della Fine del Mondo, in contraddizione alla propria natura deserta. Anche il piccolo schermo vi rende omaggio proponendone numerose sfaccettature in cui spiccano le ambientazioni un po’ teatrali di molti episodi de Ai confini della realtà. Come ogni fobia, la paura di restare del tutto soli alberga in un cantuccio della nostra mente alimentando un folklore tutto suo.
È a questo aspetto notturno e intimo che affidiamo il commiato all’argomento, celebrandone la malinconia con l’atmosfera lounge di una canzone dello spagnolo Nacho Mastretta. Tra i versi di El Ultimo Habitante Del Planeta si consuma il sogno di un triste signore senza nome, a passeggio per un mondo sospeso in una bolla di cristallo. Pare di vederlo allontanarsi smarrito, avvolto dal fumo di una sigaretta, finché di lui non restano altro che le calde note di un sax baritono sfumate in un assolo che nessuno ascolterà mai più.