Stranger Things, cose dall’altro mondo
Ci sono luoghi della memoria che vivono di icone, citazioni, presenze letterarie. Ce li portiamo dentro mitizzandoli sempre più, in un operazione che li enfatizza e li reinventa, arricchendoli di significati forse postumi, forse anche posticci, ma che la nostalgia rende sinceri.
Gli anni ’80 visti a distanza di tempo, acquistano in quest’ottica una dimensione dolorosamente perduta, di momento germinale della nostra vita e del nostro immaginario. E’ il corollario di un presente che fa più paura dei mostri di King e degli alieni di Spielberg, facendoci rifugiare in una ricostruzione perfetta come quella di Stranger things, dove ogni elemento narrativo è maniacalmente rivisitato portandoci indietro nel tempo come farebbe l’automobile di Ritorno al futuro.
L’operazione riuscitissima dei fratelli Duffer, registi e co-sceneggiatori della serie, nasce sulla piattaforma produttiva di Netflix che per sue caratteristiche strutturali consente agli autori una libertà espressiva abbastanza rara nelle televisioni commerciali. Col suo respiro filmico, il linguaggio adulto e i tempi non vincolati dalle interruzioni pubblicitarie, Stranger Things ci porta nella provincia americana del ’83, fatta di conformismi e stereotipi, per lacerare il velo della normalità con l’irruzione dell’anomalia.
Con l’arrivo del Male, nulla resterà più come prima. Non i protagonisti-ragazzi, costretti a confrontarsi con un problema più grande di loro (e a maturare in fretta), non i giovani che rompono gli ultimi cordoni ombelicali con le proprie famiglie disfunzionali, non gli adulti che ritroveranno se stessi dopo che la vita li aveva seppelliti in ruoli stantii.
La sostanza di questo serial è una collazione abile e soprattutto sensibile di schemi già vissuti e digeriti, ma che non hanno ancora finito di raccontarci qualcosa incarnando degli archetipi universali. Numi tutelari del telefilm sono i già citati Stephen King e Steven Spielberg, entrambi cantori dell’epica dell’adolescenza, un universo perduto di incomparabile bellezza in cui la vita riempie ogni attimo travolgendolo di entusiasmi, amori, Amicizia (con la A maiuscola) e anche orrori. L’uno sul piano letterario, l’altro su quello dell’immagine, i due autori hanno codificato le coordinate di questa mitologia moderna, in cui le corse in bicicletta, la libertà strappata coi denti, l’avventura, l’ingenuo supporto di gadget come walkie-talkie e fionde, permettono di affrontare i propri incubi, metafora horror/fantastica del processo di crescita.
Agli echi di Stand by me, It, Incontri ravvicinati ed Et, ai buddy-movies come Goonies, fanno seguito le atmosfere torbide di John Carpenter (la cui presenza aleggia anche nei suoni elettronici della colonna sonora), l’alterità delle creature di Alien e del Nightmare di Wes Craven, tutti fusi in un meta-racconto che ne raccoglie gli umori e le inquietudini più sincere, a formare un omaggio che non suona artefatto o stucchevole, ma parla ai sentimenti diventando ipnotico e coinvolgente.
La scelta dei font grafici della sigla, le musiche, i ritmi, la ricostruzione fanno magicamente decollare la storia puntata dopo puntata, immergendoci nel mondo e nei sogni di un gruppo di “perdenti”, troppo intelligenti e irregolari per essere integrati nell’ambiente mediocre in cui vivono.
Dopo la scomparsa dell’amico Will, inghiottito nella notte in un piano oscuro di esistenza, si aggiunge l’arrivo della misteriosa Undici, bambina in fuga da un centro di ricerche militari interpretata da una straordinaria Millie Bobby Brown. Il timido, coraggioso Mike, lo sdentato genietto Dustin e Lucas, scettico e razionale si prendono cura di lei, nascondendola e assimilandola nella loro “società”.
La bambina spaurita e di poche parole, coi suoi poteri paranormali rappresenta la chiave per affrontare e dirimere la rete di enigmi che avvolge il laboratorio e i fatti inspiegabili che insanguinano il paese. Sulle sue tracce vedremo operare uno sceriffo apparentemente stolido, ma dotato di umanità e intuito, affiancando le indagini generose e un po’ incoscienti dei tre amici rimasti. Il Marshall Hopper (che richiama l’Alan Pangborn di King) darà credito alle assurde asserzioni di Joyce, la madre di Will, unica testimone di eventi impossibili che la convincono contro ogni logica che il figlio sia ancora vivo.
Con Joyce e il suo ruolo a un tempo fragile e ferreo, ritroviamo un mito degli anni ’80, cioè una Winona Ryder in gran spolvero che divide la scena con un altro protagonista del decennio, Matthew Modine, efficacemente calato nel ruolo cattivo del dottor Brenner. La prima stagione del serial si consuma in un felice ciclo di otto episodi, partito nel luglio 2016. Pur soddisfacendo le domande e le aspettative del pubblico, gli archi narrativi si chiudono lasciando aperti degli spiragli per un sequel, che, a detta degli autori, potrebbe avere una dimensione autonoma rispetto alla prima stagione.
Il compito appare non facile né invidiabile, dovendo portare il peso di un confronto pesante. Chissà se riuscirà nell’intento, a dispetto del detto latino, forse non sempre repetita iuvant.