A Cuba
di Eliana Petrizzi
A un amico che c’è appena stato, Cuba non è piaciuta. Mi ha consigliato di evitare l’Havana perché squallida e malfamata. Dell’entroterra verso Pinar del Rio ha detto: “Che ci vai a fare?” Delle spiagge: “Niente di che”. Della gente: “Contadini, miserabili e comunisti”.
In aereo, molti italiani confrontano le medicine comprate contro il colera, altri parlano di come portarsi in camere le ragazze e di quanto costano, poi di come evitare parassiti e diarree.
A ciascuno il suo viaggio.
1
Vado all’Hotel Nacional a cambiare gli euro in cuc. Percorro il Malecon; a destra l’oceano, a sinistra le ambasciate, brutti alberghi ed edifici governativi. Dal lato opposto, i cubani restano per ore a guardare il mare.
Mi ritiro nel ventre antico della capitale, tra fregi, portoni, colonnati, balconate, scale e ceramiche, che struggono coi loro sapori di zucchero grezzo, di carne calda, di vento battente. Il mare tra le palme, la pazienza del giorno, la luce che intarsia le avarie delle strade, salvandole in una delicatezza di trina. Ragazzi scalzi giocano a baseball al centro delle strade, bimbi fanno gare nel terriccio con le biglie di vetro: schizzi saporiti di piccole cose, pane fatto coi prodigi dei semplici. Indosso scarpe basse, il viso per la prima volta senza trucco. Qui niente mi rassomiglia, e in questo mi riconosco.
Per strada, molti capiscono da lontano che sono italiana. Quando si avvicinano, mi salutano e mi dicono: “Holà, Italia! Mozzarella, Mafia e Berlusconi!”
Nel pomeriggio vado a visitare Alamar, un grosso sobborgo popolare a est dell’Havana, affacciato sul mare. Da qui, nel 1994 iniziò la fuga disperata dei balseros verso Miami. All’Havana, come in tutta Cuba, l’odio per gli americani non ha però sopito l’istinto esterofilo. L’America i cubani continuano a sognarla. Nelle case, le televisioni servono per vedere i video dei cantanti cubani diventati famosi a Miami, di cui copiano le catene dorate al collo, i pantaloni a vita bassa, le movenze hip-hop e i tatuaggi. Le ragazze che si prostituiscono si riconosco dai capelli ossigenati, dai tacchi a spillo, dalle minigonne e dalla sigaretta accesa tra unghie variopinte. Le trovi sedute in Park Central, al bar accanto all’Hotel Inglaterra. Arrivano, si siedono e aspettano i maschi – di solito over 50 e italiani – che le raccolgono per la sera. Queste ragazze vivono in abitazioni chiamate “solar”, edifici caduti in malora dopo gli anni ‘50, dove, in pochi metri quadri vive una famiglia intera. Le persone che ci vivono mi lasciano entrare, felici che scatti loro delle foto. Non mi chiedono neppure che gliele spedisca; basta rivederle sul monitor della fotocamera. Le bambine hanno sorrisi che sembrano brividi. Una di loro mi chiede di visitare la sua camera. Saliamo lungo una scala di legno che dà accesso a un sottotetto, di quelli che i nostri nonni usavano per stivare il tabacco. ll balcone è un rudere coloniale da cui è meglio non affacciarsi, sotto cui si stende un’Havana immensa e cruda. La madre è una donna che dimostra il doppio dei suoi anni. Le chiedo di fotografarla: lei sorride vistosamente, le dico di stare naturale. Lo scatto che ne esce è quello di una figura in controluce, sul viso le tracce di un’amarezza senza rimedio.
Molte di queste abitazioni erano un tempo alberghi del regime caduti in abbandono. Una donna che mi vede filmare il cortile e gli interni mi dice che queste baracche sono del Governo, che anche chi ci abita, incluso il pappagallo in gabbia sul balcone è del Governo. Da queste case, le ragazze che di giorno stanno scalze e senza trucco, la sera scappano, trasformate da minigonne e lustrini. Profumano d’incenso, escono con gli infradito e, tacchi a spillo in mano, si avviano spedite verso il bar accanto all’Hotel Inglaterra.
Sera all’Havana. Persi i colori del giorno, le case sono palpebre che anche chiuse vegliano. Da una finestra aperta, le mani di una donna oltre la grata sembrano le ali di un uccello appena posato dopo una migrazione.
2
Cienfuegos, spiaggia di Rancho Luna. Evito le baie segnalate dalla guida, preferendo quelle consigliate dagli abitanti del posto.
A riva, incontro una coppia di calabresi trapiantati da 50 anni in Canada. Lei mi dice che faccio bene a viaggiare e a spendere i soldi adesso, e che è inutile risparmiare, perché non si è mai vista la bara di un miliardario seguita da quella piena di tutti i suoi soldi. Lui, grasso e con una vistosa catena d’oro al collo, dice che questo posto fa schifo, che anche Trinidad è una fogna, che la vera Cuba è Varadero, dove ci sono i bildings e si fanno i bisniss.
3
Appena fuori dalle città il trambusto smette, per lasciare spazio a un paesaggio tropicale fatto di palme reali, terra rossa, strade sterrate, fiumi e vento. La strada che porta verso Pinar del Rio è un’ampia carreggiata in cui s’ incontra l’anima contadina di Cuba. Qui, i mezzi pubblici funzionano solo per i turisti. I cubani chiedono passaggi lungo la via ai mezzi del Governo, concessi in comodato d’uso ai lavoratori delle imprese di allevamento e agricoltura di cui vive la regione. Le strade extraurbane del Paese sono per noi un circo sregolato che diverte o stupisce, a seconda delle circostanze. Nei paesi dell’entroterra, le abitazioni sono costruite con assi di legno di palma – molte di sbieco a causa dei cicloni. Ogni cosa in questi luoghi ricorda i racconti di mia madre bambina: il gallo che canta all’alba, il coro dei pulcini nei pollai, lo strillo del venditore di pane e del giornalaio, il calesse che consegna il latte in otri di alluminio, gli ambulanti di frutta, verdura, patate dolci e frutti tropicali; i friggitori di pesce, chicharritas e dolci in pasta di yuca, il lustrascarpe sul marciapiede. Un giovane all’angolo ripara accendini per sigarette, un potatore scolpisce un albero con un machete, un altro stucca il cofano di un’auto o ripara le maglie di una catena a colpi di pietra, sul bordo del marciapiede. Nei villaggi, il terminal degli autobus è una fila di calessi a cavallo. Quelli privati trasportano tabacco e canne da zucchero, o qualche passante raccolto in strada. Il pomeriggio è caldo e velato. Prendo una bicicletta e vado a fare una passeggiata appena fuori dal paese. Lungo la strada mi fermo a guardare due case abitate da campesinos. Il centro del villaggio è lontano, qui i turisti non si fermano.
C’è solo l’asfalto vuoto, palme, vento, e i mogotes. Scavalco il recinto e chiedo se posso stare un po’ con loro. Mi dicono di entrare con un gesto generoso delle mani. Le bambine si guardano, ridono, corrono a nascondersi e ritornano. Dalle finestre entrano il suono delle palme e l’aria dei tropici. Qui non esiste corrente elettrica: un piccolo pannello solare fornisce l’energia che serve soprattutto per tenere accesa la tv, sintonizzata su un canale che trasmette h24 i video musicali dei cubani a Miami. La camera da letto dei grandi è un giaciglio adagiato a terra, tra balle di abiti e scarpe. In fondo, un angolo cucina con antiche mattonelle colorate, pentole nere, catini di plastica per il recupero delle acque, utensili in legno e latta. Il bagno è fuori, accanto al ricovero dei maiali e delle galline, che vagano liberi nella stessa terra in cui le bimbe corrono a piedi nudi. Ho con me la solita busta di cose da donare. Per ringraziarmi, mettono su un dvd di salsa e reggaeton, e iniziano a ballare. Potrei restare qui tutto il tempo. È chiaro che oggi io sono per questa famiglia l’unica occupazione del giorno. Le cose che ho dato loro – un pacchetto di gomme, una collana di perline di vetro, un sapone, degli abiti – sono trofei di cui le più piccole si vantano l’una con l’altra, proponendosi scambi.
Dalla finestra vedo una valle immensa. Lontano, un campesino col suo aratro lancia versi d’incitamento ai buoi. Nel solco appena tracciato, grandi uccelli bianchi si alzano in volo come un mulinello di carte al vento, verso le cime dei mogotes.