Don Leo, o le disavventure della virtù
“La virtù, per quanto bella sia, quando disgraziatamente diventa troppo debole per lottare contro il vizio diventa il peggior partito che si possa prendere”
Il marchese De Sade, indagando l’osceno più violento e corporale, scrisse alcune tra le pagine più controverse e pruriginose della sua epoca, e forse anche della nostra, come nel caso di una delle sue opere più conosciute Justine, o le disavventure della virtù, da cui è tratta la citazione iniziale. Justine è una ragazza sfortunata, rimasta orfana in giovane età che cerca di mantenere intatta la sua virtù, tentativo vano visto il mondo in cui vive. Senza volere mai commettere alcun peccato partecipa a orge e diviene vittima delle perversioni degli uomini e delle donne che incontra.
La pornografia, la pedofilia, la violenza sessuale in passato sono state utilizzate come metafore o mezzi nell’arte. Questa funzione riesce a sublimare anche la peggiore nefandezza, spostando l’attenzione di chi legge dall’etico all’estetico, sospendendo il giudizio morale in favore dell’artistico, come per la Morte a Venezia di Mann. Tuttavia alcune opere possono essere tanto violente da non essere comprese dai contemporanei, come il caso di Pasolini che rielaborò Le centoventi giornate di Sodoma di de Sade per rappresentare la Repubblica di Salò, destando un scandalo che anche dopo la fine della censura non si è mai placato. Walter Siti, non a caso uno dei maggiori studiosi di Pasolini, nel suo romanzo più recente, Bruciare tutto (Rizzoli, 2017), si avvale di questi schemi e di uno degli ultimi tabù rimasti nella società occidentale, dove tutto è fruibile e quasi ogni cosa è accettata: il racconto carnale e spirituale di un pedofilo, un prete pedofilo.
Un tema del genere ha scatenato, a neanche una settimana dall’uscita del libro, un dibattito circa l’adeguatezza della dedica “all’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani”; alla natura morale dell’opera; alle intenzioni del suo autore. A questo proposito sono intervenute le penne dei maggiori critici italiani, della più veemente Michela Marzano, e dei più concilianti Fabrizio Coscia e Michela Murgia.
In realtà, leggendo i giornali, e soprattutto seguendo i numerosissimi programmi di cronaca, è facile accorgersi di come il tema della violenza sia seguitissimo, anche quella su minore. La gente comune desidera sapere. Più il fatto è orrido, più si appassiona. Anche la pedofilia all’interno della Chiesa non è più un tabù, ma un tema che viene continuamente viene riproposto e sviscerato. L’argomento affrontato da Siti, per quanto scabroso, non è certo nulla di nuovo in letteratura. L’innovazione vera, scioccante da lui attuata, sta nel modo in cui il pedofilo, viene presentato. Il sacerdote don Leo non è giudicato in chiave negativa, anzi, non è sottoposto ad alcun giudizio, né da parte dell’autore, né dei personaggi del libro che vengono a conoscenza della sua perversione, come l’amico Duilio, che prima decide di chiudere “forever con lui”, e poi si chiede “chi sono io per giudicare?”, finendo per riappacificarcisi. Don Leo viene presentato come un essere umano, non un mostro sadico, ma la prima vittima della sua stessa depravazione. “A che razza appartengo?” si chiede disperato dopo essere passato dalla potenza all’atto della sua perversione, sotto l’occhio silenzioso, forse perché indulgente, del suo dio. Questo è quello a cui il lettore non è abituato.
Dio, nonostante dialoghi spesso con il prete, resta muto dinanzi alle sue pulsioni, ed è la grande presenza che tiene unita la fede e il desiderio di Leo. “Se devo vivere contaminato da questa follia, se sono bacato tarato guastato, profondamente e letteralmente irrecuperabile, perché Dio mi cerca ancora?”, in altre parole, “si deus este unde malum?”. Proprio questa sembra essere la domanda fondamentale che Siti pone nel libro. Dov’è il male? Leggendo Bruciare tutto viene spontaneo rispondere che il male, come il sesso, è dappertutto.
Sembra che l’autore voglia sbeffeggiare colleghi e lettori lanciando una potente bomba nel mezzo del suo libro, perché nella Milano del 2015 rappresentata da Siti c’è molto di più, ma non molto di meglio, della pedofilia. L’intento dichiarato di Siti era rappresentare questa società, che senza sorpresa scopriamo essere multiculturale e razzista, ossessionata dal denaro e dalla sessualità. Intorno a don Leo c’è una schiera di figure ambigue che rappresenta lo strato intermedio della società, le figurine che stanno tra i poveri e i super ricchi, che a seconda dell’opportunità carezzano o calciano i primi per raggiungere i secondi.
Il tema della pedofilia fagocita tutto, e Siti lo utilizza nella maniera più disturbante possibile anche quando non ne tratta direttamente: “Dio non mi parla più […] lo molesterò finché non mi parlerà di nuovo”; fa quasi perdere di vista al lettore quello che è invece il nodo centrale della narrazione, Milano, quel luogo dove don Leo combatte contro se stesso, dove incontra la finta bontà dei borghesi verso gli immigrati e dove i più forti approfittano dei più deboli. Un girone infernale di borghese apparenza, dove il teorema pasoliniano è riconoscibile soprattutto nelle figure femminili dell’agiata e vacua capitale del profitto. Una Milano multietnica suo malgrado, ipocrita, dove le persone non riescono a esprimere concetti basilari senza ricorrere ad anglicismi o a referenti del mondo anglosassone.
Sarebbe sbagliato tuttavia pensare che la pedofilia in Bruciare tutto sia solo un pretesto o una metafora pura. Si tratta invece di un leitmotiv che attraversa una grande epica del Male, in cui non ci sono eroi, né grandi antagonisti, ma piccoli omuncoli impegnati a ferirsi reciprocamente. Siti narra la realtà, bella o brutta, più spesso brutta e violenta, che si stende ai piedi delle ombre di don Leo e Duilio, del prete e del banchiere, entrambi ridicoli e smidollati, artefici contriti del male che consapevolmente procurano agli innocenti. Non si può dire che don Leo sia sadico, eppure gode del male che sogna di provocare ai bambini, i deboli per eccellenza; quando si sveglia da uno dei suoi incubi di prete pedofilo, con putti e orgasmi, vede dinanzi a sé un totem, non la madonnina del Duomo, ma la fiammeggiante torre Unicredit, anima vera della sua città, anima del sistema produttivo italiano. Il desiderio del prete si incontra con il desiderio di guadagno e accrescimento di un altro uomo che vive all’ombra della grande banca, Duilio: “il prete e il banker sotto pressione occupano varie porzioni di spazio, come le masse di una stella doppia che non possono liberarsi dei reciproci vincoli gravitazionali”. I vincoli che li uniscono non sono solo di natura affettiva, sono i patti non espliciti che uniscono chi abusa degli altri.
“Non ‘capire’ ma ‘vivere’, scontare appieno la dimensione limitante del desiderio: dalla carne al fuoco dell’olocausto che la divora tutta e la trasforma in offerta” è la decisione che Leo prende a seguito della rievocazione dello stupro, e l’olocausto, l’ultima offerta di sé al dio, sarà anche la conclusione dell’opera.
L’epilogo suicida di don Leo con il fuoco ha funzione analoga a quello in Anna Karenina. Tolstoj non poteva risparmiare la sua eroina, perché sapeva di non poter lasciare in vita un personaggio per l’epoca tanto controverso. Non ci sarebbe stato posto per Anna nella Russia dell’Ottocento. Siti può scrivere un libro in cui vi è ri-umanizzazione nei confronti del pedofilo, ma non può farlo vivere impunemente. Il lettore necessita di quel fuoco catartico per prendere le distanze, voyeur come sa di essere, da quello che ha visto spiando nel buco della serratura della mente di don Leo, dalla pietà che ha provato nel vederlo vittima di se stesso. Soprattutto alla luce del motivo che spinge il prete a compiere il gesto.
Don Leo non si uccide perché gravato dalla colpa di aver abusato di un minore, ma perché oppresso dall’astinenza, da lui reputata addirittura virtuosa, che ha dimostrato a seguito di quell’evento isolato. Il partito della virtù di cui parla de Sade non ha giovato alla sua Justine, e neanche a don Leo.