Esistenze affrancate: l’importanza di essere franco oggi
di Marco Antonio D’Aiutolo
“È necessario credere, bisogna scrivere”
Baustelle, Baudelaire
Tutti sanno che The Importance of Being Earnest, la famosa opera teatrale di Oscar Wilde del 1895, viene erroneamente resa in italiano col titolo L’importanza di chiamarsi Ernesto, quando, invece, era intenzione dell’autore giocare con il nome Earnest che in inglese significa onesto, franco. Per cui molti ritengono che una corretta traduzione del nome Earnest sia Franco e il titolo appunto sia L’importanza di essere Franco. Meno chiaro è forse il motivo per cui io titoli la rubrica con quello dell’opera di Wilde e l’aggiunta dell’avverbio: oggi.
Innanzitutto per il significato, anzi per i significati dell’aggettivo franco. Ha un’ampia gamma semantica. Ma a noi interessano due in particolare. Non solo “franco” si usa per indicare una persona onesta, sincera, schietta: è il significato più noto; ma anche per indicare qualcuno come libero (più precisamente esente). Quest’ultimo è il significato meno conosciuto e più antico. Il termine deriva delle tribù germaniche che si stanziarono nelle regioni del Reno come federati del tardo impero Romano per poi affrancarsi e stabilire un reame duraturo. Dato, quindi, che i Franchi, in epoca medioevale, erano l’unica gente a godere di diritti di cittadini liberi, il termine “franco” assume il significato di “libero”, che venne associato anche al nome proprio fin dal IX secolo.
Per cui, ad esso si possono associare anche significati del tipo: disinvolto, sicuro, valoroso, coraggioso, o l’espressione “andar franco”, cioè senza vergogna, né timore. Questa prima spiegazione chiarisce già, in parte, le ragioni sottese al titolo e quindi gli argomenti che si vorrebbero trattare in questa rubrica. Ma non bastano. Il motivo per cui uso proprio il titolo di un’opera di Wilde riguarda il fatto che i temi relativi all’importanza di essere onesti e franchi sono legati proprio all’espressione letteraria e, in particolare, ad un genere letterario specifico.
Per capire di quale si tratta ancora una volta si rende necessario il riferimento ad Oscar Wilde e alle vicende private e dolorose che hanno segnato la vita del maggiore esponente del decadentismo inglese. Anche in questo caso tutti sanno che lo scrittore irlandese fu protagonista di due procedimenti giudiziari. Dopo aver accusato di calunnia il marchese di Queensberry, padre di Alfred Douglas, con cui Wilde intratteneva una relazione, si ritrova egli stesso ad essere imputato a sua volta per sodomia, date le prove della sua omosessualità raccolte dagli investigatori della difesa. Wilde fu condannato a due anni di reclusione, che scontò nel carcere di Reading (che ironia!) e il suo processo ebbe una risonanza internazionale.
Da quest’esperienza proprio Alfred Douglas (soprannominato Bosie) scrisse una delle più belle poesie note nel mondo omosessuale e oltre: Two Loves, in cui parla di quell’amore che non osa pronunciare il suo nome. Ma a noi interessa soprattutto l’atteggiamento che in Italia si ebbe nei riguardi di questa incresciosa vicenda. Francesco Gnerre, nell’introduzione al suo libro L’eroe negato, riporta due articoli: uno di Matilde Serao (che firma su «Il Mattino» di Napoli una rubrica con lo pseudonimo Gibus) e l’altro di Paolo Valera, scrittore e giornalista socialista. Alla notizia dell’arrivo dei due “obbrobriosi” amanti a Napoli, la prima osserva: «Stia o non stia a Napoli, l’esteta raffinato – raffinato a suo modo, s’intende! – io protesto in nome della gente per bene, in nome della gente che vuol vivere tranquilla, in nome della pace del Wilde stesso (il quale ha il diritto di chiedere mercé e discrezione, dappoiché anche ai grandi colpevoli è consentito questo diritto) perché non ci si infligga più una cronaca wildistica». Insomma che resti al posto suo, buono buonino! Valera invece scrive: «L’oscarwaldismo è la religione degli invertiti», «troppo turpe, troppo nauseosa, troppo latrinesca per lasciarlo vivere. Sia perseguitato ovunque». Gnerre spiega con questi due riferimenti quale sia l’atteggiamento italiano nei riguardi dell’omosessualità, che nei primi del secolo era un argomento «semplicemente tabù e se vi si faceva cenno era solo per stigmatizzarlo in maniera violenta e senza appello» e negli anni successivi la cosa non migliora affatto. «Schiacciati da una condanna, o da un assoluto silenzio, che una volta tanto metteva d’accordo tutti, cattolici, fascisti e comunisti, gli omosessuali che avessero voluto vivere la loro omosessualità e rappresentarla non hanno avuto molto spazio».
Lo spazio rappresentativo di cui parla Gnerre è in particolare quello della letteratura. Di qui il titolo del suo libro. L’eroe negato è lo scrittore che, pur essendo omosessuale (e parliamo di Giovanni Comisso, Umberto Saba, Sandro Penna e altri ancora, Pasolini stesso), nel corso del Novecento italiano, assume un atteggiamento paradossale nei riguardi di sé stesso e della propria produzione letteraria. Le loro pubblicazioni che trattano di omosessualità sono quasi clandestine, le loro poesie hanno un pubblico limitato e «di fatto non scalfiscono l’ostentata visione maschilista e antiomosessuale della cultura dominante», anzi la fanno propria. Assumono quello che Gnerre chiama «un processo di differimento»: «L’autore rimanda ad un altro momento, magari dopo la morte, la pubblicazione dell’opera e questo differimento molto spesso è dovuto a problemi di non accettazione interni agli scrittori stessi». Vi è «una sorta di rimozione della liberazione». (Come ad esempio il caso del Padre della Patria, Luigi Settembrini che in carcere scrive il suo romanzo di argomento omosessuale, I neoplatinici e che camuffa come una traduzione di un testo greco). Si tratta non solo di censura, ma di una vera e propria autocensura, che si manifesta anche come «una tendenza a mistificare».
Come sosteneva George L. Mosse, nel suo Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, era la tipica tendenza ad adeguarsi di chi si sentiva estraneo rispetto all’etica della cultura dominante in cui si era inseriti: non contestarla, ma assimilarla, assumerla, farla propria fino ad accettare come giusta la negazione della propria identità particolare. Come accadeva spesso e ancora oggi accade circa il voler scimmiottare un certo virilismo riconosciuto o “normalizzarsi” nei termini di una certa moderatezza sessuale, normativamente accettata in nome del “pudore”. Mi riserverò di ritornare su questi temi nel corso della rubrica. Per ora vorrei concludere tirando le fila del discorso.
Credo che siano piuttosto chiari gli argomenti della rubrica che vorrei curare. La rubrica avrà due uscite mensili che mi permetteranno di dividere gli articoli in due parti: quelli della prima uscita e quelli della seconda. Lasciandomi ambi margini per poter ovviamente spaziare su diversi temi attinenti, mi riprometto di dedicare l’attenzione, negli articoli della prima, innanzitutto, al rapporto che la sessualità in generale e l’omosessualità in particolare hanno avuto nella società europea e italiana nel corso del Novecento (con riferimento anche ai secoli precedenti) e che ancora influenza la mentalità odierna, difficile da scardinare. Non mi riferirò innanzitutto all’omofobia esplicita e dichiarata di chi non accatta l’amore tra persone dello stesso sesso, né agli omosessuali che faticano a dichiararsi, ma proprio a coloro che, malgrado siano dichiarati, conservano ancora, da un lato, un atteggiamento antiomosessuale e, dall’altro, il bisogno di negarne le particolarità e vivacità tipiche del gay, attraverso una sorta di normalizzazione propria di una società puritana e perbenista. Sono soprattutto i giovani a non conoscere o a trascurare la carica storica, culturale, politica e rivoluzionaria della semplice parola “gay”.
Il secondo tema, quello della seconda uscita, è legato al primo e riguarda invece l’omosessualità (nascosta, accennata, negata o differita) presente in alcuni autori del percorso letterario del Novecento italiano. Gli studi culturali hanno messo in evidenza l’esistenza di culture e della cultura (o culture) gay. Quest’ultima non può essere negata facilmente in nome del timore di ghettizzazione. Non si tratta certo di etichettare (scrittore o romanzo o letteratura omosessuale), ma di riconoscere che di fatto ci sono stati uomini che hanno sentito il bisogno di comunque vincere i propri blocchi interiori e di mettere per iscritto un elemento centrale della propria esistenza personale e della propria “diversa” identità. Data la forza repressiva del silenzio, l’autocensura di questi scrittori non ha permesso ai loro libri, come osservava Pasolini, di agire realmente nelle coscienze (l’incidenza rivoluzionaria, profetica e creativa tipica della letteratura), rallentando, forse, la realizzazione di un immaginario più aperto.
Ritengo, comunque, che più che di un eroe negato, qui si stia parlando di un processo (certo faticoso, certo, con arresti, impedimenti ecc.) di vere e proprie emancipazione ed affrancamenti, che sono fondamentali ricordare e che potranno allargare ulteriormente la consapevolezza di orizzonti più ampi. Per questo è importante, oggi, essere franco, nel senso di cui sopra: libero, onesto, disinvolto, sicuro, valoroso, coraggioso, senza vergogna, né timore. E come osserva Nietzsche: «Che cosa è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi».
Argomento quanto mai attuale, interessante al di là di quanti tra noi lo vogliano ammettere. Il tema della interiore libertà verso se stessi e le proprie autocensure, retaggio di una cultura machista e sessuofobica alla quale siamo stati indirizzati e dalla quale a volte con fatica riusciamo a prendere le distanze è quanto mai importante per realizzare seriamente una società emancipata e liberale. Bel tema.