Jasmine Trinca è “Fortunata” per Sergio Castellitto. Lo spettatore un po’ meno
Al Festival di Cannes ieri è stata la volta di Fortunata di Sergio Castellitto (già nelle sale italiane dal 20 maggio), uno dei due film italiani presenti in “Un Certain Regard”, assai generosamente ospitato nella seconda sezione competitiva di un Festival che al momento si sta dimostrando al di sotto delle aspettative. Al suo sesto film dietro la macchina da presa Castellitto, con la complicità della consorte/scrittrice Margaret Mazzantini, prova a raccontare una sorta di romanzo popolare ambientato a Torpignattara, periferia romana ed europea, presentata come un crogiuolo di etnie, con una netta dominanza dei cinesi, “i nuovi padroni del mondo” come spiega la protagonista eponima alla figlioletta.
Fortunata (una procace Jasmine Trinca) è una giovane e avvenente ragazzona separata, che sbarca il lunario tagliando i capelli a domicilio in attesa di aprire un negozio di parrucchiera tutto suo. Intorno a lei gravita un’umanità maschile meschina e gretta, come lo psichiatra interpretato da Stefano Accorsi, violenta e prevaricatrice (il marito burino), o semplicemente reietta, come il tatuatore tossico Chicano interpretato da Alessandro Borghi, che sembra purtroppo sempre più intrappolato nel personaggio del delinquente di borgata, condannato a variazioni sul tema del medesimo cliché (vedi Non essere cattivo di Claudio Caligari e Suburra di Stefano Sollima).
Dopo una partenza in cui riesce più o meno a tenere, seppur faticosamente, il film diventa man mano sempre più scollato, inanellando una serie di snodi narrativi assai poco credibili, e viene rapidamente ed inesorabilmente a galla la cattiva scrittura dei personaggi, l’inutile mobilità della macchina da presa, la scarsa consistenza delle prove degli attori, la debolezza di un’ambientazione che non riesce mai a diventare vera descrizione di un contesto socio-culturale.
Come sempre avviene nelle storie firmate dai coniugi Castellitto, lo spettatore è fronteggiato con una sequela interminabile di eventi, raccontati in maniera rozza e grossolana in cui si cerca di mascherare la mancanza di profondità ricorrendo all’urlo, all’overacting, alla moltiplicazione di eventi drammatici, ad un profluvio di canzoni inserite un po’ a caso e scadendo talvolta nel ridicolo, come quando si ascolta Have you ever seen the rain dei Creedence Clearwater Revival mentre delle ginnaste cinesi stanno facendo degli esercizi sotto la pioggia. Purtroppo, è proprio quest’accumulo di fatti e situazioni ad impedire al film di centrare qualsiasi bersaglio ed il regista si sposta da un episodio tragico all’altro senza soluzione di continuità e senza la capacità introspettiva di far rilevare l’effetto che il cumulo di disgrazie ha sulla vita dei personaggi. Spiace quindi dover ricordare ancora una volta che film così a Cannes non dovrebbero mai arrivare e che un Festival dovrebbe evitare di incappare in scivoloni così esorbitanti.
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