Blindspot, scritto sulla pelle

Un insolito bagaglio fa capolino nella folla di Times Square. Nonostante abbia tutte le caratteristiche per sembrare una minaccia esplosiva (non si sa cosa nasconda, né chi l’abbia depositato), mostra di contenere una ragazza nuda in stato confusionale, col corpo interamente coperto di tatuaggi.
Il viaggio nei segreti di Blindspot può cominciare. La serie targata Warner Bros, ideata da Martin Gero inizia in medias res, e mantiene il suo carattere distintivo nel segno del mistero e dell’avventura a partire dal primo episodio, andato in onda sull’americana NBC nel settembre 2015.

L’affascinante Jaimie Alexander, già Lady Sif nei film marvelliani di Thor, dà il volto all’eroina dal passato oscuro che apre le prime scene del serial. Ribattezzata col nome convenzionale “Jane Doe” (sinonimo di sconosciuta), la donna attira subito l’interesse del FBI per un semplice ma potente espediente: sul collo porta tatuato a chiare lettere il nome di Kurt Weller, l’agente speciale al quale sembra essere indirizzato il suo rebus. E di rompicapo si tratta realmente, in quanto gli esperti del Bureau si accorgono ben presto che il ritrovamento è stato previsto in modo deliberato da qualcuno che ha resettato chimicamente la memoria di Jane, per renderla un post-it vivente carico di informazioni criptate.

Come si renderanno conto la dirigente Mayfair, donna flemmatica e di polso, l’intuitiva scienziata forense Patterson e la squadra di Kurt, costituita da personaggi complessi e sfaccettati come lui, ogni parte del corpo di Jane è la chiave cifrata che consente di venire a capo di attività criminali, terroristiche e di spionaggio, tramite immagini, sigle o numeri.
Un vero bignami dell’illegalità trascritto come le sciarade della Settimana enigmistica.

Il plot è semplice ma efficace, potenzialmente poco verosimile – per quanto riguarda l’inserimento di Jane nell’organico della squadra – eppure riesce a far dimenticare le falle di credibilità della storia tramite un sapiente uso dell’azione.
Blindspot, infatti, è movimento, Blindspot è camera a spalla, Blindspot è tanta, tanta adrenalina. Col collante dei numerosi enigmi da scoprire, il serial cattura subito lo spettatore facendo scorrere veloce la timeline degli eventi, in uno schema che utilizza elementi autoconclusivi (il caso in corso) e gli indizi che si accumulano tracciando una storia parallela, il passato carico d’ombre di Jane rivelatasi nel primo ciclo Taylor Shaw, una persona legata alla famiglia dell’agente Weller scomparsa molti anni prima.

Con questa materia narrativa gli sceneggiatori confezionano un dispositivo efficace, sorretto dalla regia rapida e coinvolgente, da una fotografia livida e bruciata e da interpreti eloquenti, in grado di comunicare emozioni inespresse in tesi primissimi piani. I sentimenti sepolti sotto un ruolo (e un fisico) roccioso traspaiono tutti dai dolenti occhi azzurri di Weller (Sullivan Stapleton); lo smarrimento di Jane/Taylor non diventa mai di maniera grazie all’espressività del viso da modella della Alexander, al servizio di una mimica consumata. Stesso dicasi per le motivazioni del capo Mayfair, interpretato con la consueta umanità da Marianne Jean-Baptiste, già veterana di serie di successo come Senza traccia, coadiuvata dalle efficaci caratterizzazioni dei comprimari Edgar Reed, Tasha Zapata e il dottor Robert Borden, tutti dotati di una storia personale, problemi e relazioni che li rendono persone vere e non semplici personaggi.
Nel corso della prima stagione le risposte e i misteri si succedono, dandoci squarci della missione di Jane (perché di missione si tratta), svelandola come lo strumento di una partita in cui sono coinvolti anche la Cia e grossi traffici internazionali.
Ben presto, d’altronde, la tecnica di combattimento della smemorata la identifica come ex Navy Seal e giustifica gli autori del suo pieno coinvolgimento nelle rischiose operazioni del team del FBI.

La corda del mistero è tesa con la tradizionale alternanza di scoperte/contraddizioni che mantengono vivi gli interrogativi sul reale ruolo della donna tatuata, così come la sua lealtà rispetto al gruppo in cui opera. E’ ambiguo l’intento rivelatorio dei suoi rebus, mirati a scoperchiare un sostrato di minacce intrecciate di politica e malavita, altrettanto dubbio è anche lo scopo finale di questo gioco al massacro e l’identità di chi stia orchestrando il tutto da dietro le quinte.
Blindspot ce lo rivelerà col contagocce, puntata dopo puntata, seminando elementi per sviluppare un terzo ciclo, già annunciato dalla Warner. Dopo la seconda stagione, più aggrovigliata della precedente e segnata da colpi di scena, ci auguriamo il prosieguo non diventi depistante e grottesco come le troppe stagioni della non compianta serie Lost.

 

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