Il grande Iran: Il “Paese essenziale” secondo Giuseppe Acconcia
Il grande Iran, pubblicato dalla casa editrice Exòrma, è il libro con cui Giuseppe Acconcia descrive il tratto culturale, storico e politico di quel gigante orientale che un tempo era la Persia. Con la prefazione di Mohammad Tolouei (traduzione dal persiano di Giacomo Longhi) e le illustrazioni di Tuka Nayestani, Il grande Iran va sulle tracce di quel complesso processo che è stata la rivoluzione khomeinista del 1979 e di tutto l’intorno storico, antecedente e immediatamente successivo, che ancora oggi presenta agli occhi “stranieri” un orizzonte non del tutto compreso, offuscato dai condizionamenti mediatici e culturali che non consentono uno sguardo lucido e consapevole di quella che è, invece, una civiltà che sente sempre più il bisogno di guardare al futuro senza dimenticare il passato.
Dalla dinastia Qajar alla rivoluzione, dagli accordi sul nucleare al ritorno nel mercato petrolifero internazionale, i segni, le immagini, le icone, i dati e gli eventi disposti nel corpo narrante curato da Giuseppe Acconcia sono le coordinate prime e ultime di un paese-mondo che guarda all’esterno con discrezione e fierezza. La capitale Tehran, città che appare innervata da corsi d’acqua – così la descrive l’autore campano – “acqua che dalla montagna scende giù per chilometri”, ricorda il senso letterario antico della poesia, paragonata dalla metafora greca proprio all’acqua e alla suggestione del movimento liquido.
L’Islam, la legge, le personalità politiche, l’autorità, la ricchezza e l’arte concorrono a saldare un complesso di forme che, in un impianto scientificamente argomentato dall’indagine storiografica di Acconcia e dal suo stesso sentimento alimentato dalla perizia umanissima dell’esperienza diretta, non perde di vista l’equilibrio tra la globalità di un luogo-fenomeno e del suo protagonista principale: l’uomo, il cittadino iraniano, il religioso iraniano, l’artista iraniano, per una polifonia di rappresentazioni e di tensioni che di nulla possono fare a meno. Tra i numerosi tratti storici e politici evidenziati dall’autore, Il grande Iran solleva la questione riguardante il rapporto tra il volto laico e quello religioso in Iran. Rapporto in qualche modo rielaborato dalla stessa rivoluzione di Khomeini. Tutto inquadrato da quella prospettiva che osserva le equivoche sfaccettature della parola democrazia.
“L’Islam sciita con le sue preghiere, i suoi dibattiti nelle scuole coraniche, le sue passioni commemorative è «una forma culturale composta da strutture simboliche: è un linguaggio». Per questi motivi è molto complicato distinguere la componente islamica da quella laico-politica poiché la questione della laicità dello Stato è stata rappresentata come la negazione dell’Islam, della Costituzione islamica e della Rivoluzione del 1979.” Da Il grande Iran
Dunque, un reportage sulle relatività del progresso storico iraniano, e non solo, sull’uomo che rifiuta le categorie dell’assoluto e che, allo stesso tempo, serba in un’identità precisa la sua lezione alla storia, soprattutto a quella ancora confinata nelle imprudenze, nelle superficialità e nelle immaturità del giudizio e della conoscenza. Il grande Iran come luogo messo alla prova e che mette alla prova.
Secondo quali ragioni nasce l’interesse per l’Iran?
Il mio interesse per l’Iran inizia dopo un viaggio coi miei genitori in Siria, all’età di 18 anni. Appena ho avuto l’opportunità, dopo gli studi universitari, ho fatto domanda per lavorare in ambasciata, dove ho lavorato, vivendo in Iran, tra il 2004 e il 2005. Così ho iniziato ad approfondire e a scrivere intorno al riformismo che ha caratterizzato la storia recente di questo paese. Anche la mia provenienza italiana in qualche modo mi è stata utile, perché fino a pochi anni fa l’Italia è stato il primo partner europeo dell’Iran, sotto diversi aspetti. Ho avuto l’opportunità di ascoltare e riscontrare numerose testimonianze intorno a un luogo che nel 2009, con la celebre “Onda verde”, e nel 2014, con l’assestamento dell’attuale assetto più vicino alla comunità internazionale, ha avuto i suoi momenti più importanti dell’ultimo periodo.
Facendo riferimento a una definizione del libro, cosa si intende per “paese essenziale”?
Se consideriamo l’attuale contesto storico e politico, anche rispetto ai conflitti e alle crisi delle aree vicine, l’Iran rappresenta la vera soluzione. Quella del 1979 è stata l’unica rivoluzione realmente riuscita. È importante poter studiare adesso l’Iran. Nel 1953 si è verificato un golpe voluto dagli Stati Uniti e l’Iran è stato a lungo sottoposto alle manipolazioni statunitensi. Ora che la condizione politica è più consolidata e indipendente, l’Iran di oggi è diventato un punto di riferimento. Un paese essenziale perché potenziale portatore di soluzioni efficaci e alternative al modello statunitense troppo incline a imposizioni. Nel libro cito anche Il grande gioco di Peter Hopkirk, testo essenziale sulla panoramica storica di un Iran a lungo crocevia delle incursioni strategiche dei russi, dei britannici e degli statunitensi.
L’Iran suscita molta curiosità. Esiste quasi un fascino da Iran, come di un luogo distinto e dominante di un’area del mondo altrettanto misteriosa e affascinante. Una sorta di America opposta. Se è così, perché?
Di solito si tende a guardare all’Iran attraverso una serie di elementi sbrigativi e fuorvianti. È vero che la sua storia, anche quella recente, presenta notevoli contraddizioni, talvolta rappresentate da azioni forti e condannabili, ma è altrettanto vero che limitarsi a questa osservazione sarebbe troppo parziale. L’Iran non ha mai voluto imporre il proprio modello. Questo è un aspetto molto importante. Si muove, soprattutto dal punto di vista della retorica politica, e alcuni segni lo testimoniano, come un modello opposto a quello degli Stati Uniti, ma senza farlo con l’intento di imporlo a tutti i costi agli altri paesi. Il titolo del libro ha in sé un elemento fondamentale. Grande Iran non per la sua dimensione geografica e politica, ma per la portata risolutoria che custodisce. Gli USA con la loro politica di esportazione, e di imposizione, dei loro modelli hanno fallito. L’Iran invece lavora sul proprio modello, anche in opposizione a quello americano.
“In Iran tutto è il contrario di tutto. Libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto”. Così da un passo del libro emerge una particolare dimensione identitaria. Di che tipo?
In Iran è molto delicata la questione sulla separazione tra vita pubblica e privata. Prima di atterrare in Iran, per esempio, lo speaker dell’aereo avvisa le donne sull’utilizzo del velo, che deve essere indossato secondo determinate regole. Regole che sono imposte anche ad alcune caratteristiche dell’abbigliamento maschile. Tutto questo, che però ha subito delle modifiche negli ultimi anni, fa parte di un aspetto culturale che nella dimensione privata cambia e può essere vissuto diversamente. Esiste una forte separazione tra intimità ed esteriorità. Il passaggio emblematico è quello sulla ‘carità e il profitto’. L’Iran è un paese ricco di risorse, che esporta in altri paesi queste risorse. Nel corso del tempo si è dotato di un sistema assistenziale che consente a tutti di poter vivere. Camminando per le strade delle città non ci si imbatte nelle frequenti manifestazioni di povertà tipiche delle grandi metropoli, perché lo Stato provvede per tutti. Anche l’azione caritatevole è indirizzata a forme di organizzazione dirette a ottimizzarne gli effetti. Allo stesso tempo, però, esistono notevoli concentrazioni individuali della ricchezza, ma questo non turba la consapevolezza di dover guardare a tutte le necessità.
Khomeini ha affermato che la parola democrazia rappresenta un concetto troppo equivoco per essere adottato nella costituzione iraniana. A distanza di tempo ha avuto ragione?
Questo è un aspetto molto importante e delicato. In Iran ci sono le elezioni ogni quattro anni e i momenti elettorali riguardano una molteplicità di istituzioni. Un po’ come avviene per molti paesi europei. Le correnti politiche principali sono quattro. La destra, quella, per intenderci, di Mahmoud Ahmadinejad, poi i conservatori, un centro moderato, attualmente al governo con Hassan Rouhani, e la sinistra, rimasta esclusa dagli ultimi risultati elettorali. Più rigida è la procedura che prevede un’attività di selezione da parte del Consiglio degli anziani, che opera una cernita iniziale forse troppo estrema. Su centinaia di candidature soltanto poche unità riescono ad essere scelte. Un dato che definirei tipico di una democrazia controllata. Ma l’Iran resta l’esempio più evoluto in questa direzione. In Arabia Saudita non si vota mai, mentre in altri paesi o ci sono partiti unici o i governi sono comunque il frutto di altre volontà che di fatto non rispecchiano la volontà popolare.
L’Iran della rivoluzione khomeinista ha quindi dovuto compiere delle scelte precise in merito a certe idee?
La visione di Khomeini ha tenuto conto dell’Islam e del suo potere culturale. La scelta di istituire un’Assemblea di Esperti di diritto islamico, l’introduzione della ‘velayat-e faqih’, il controllo della produzione di leggi attraverso la “Guida suprema” hanno consentito a quei contenuti rivoluzionari di emergere dalle numerose spinte antagoniste. Una forzatura, sì, ma al tempo stesso una visione nuova e innovativa che ha consentito alla spinta khomeinista di risultare vincente rispetto a quelle alternative, che non erano poche.
La rivoluzione come ha agito sulle sensibilità artistiche? Il libro osserva con molta attenzione anche i fenomeni intellettuali iraniani degli ultimi anni.
L’Iran è sempre stato il punto d’incontro tra due flussi culturali. Quello russo e quello proveniente dalle aree occidentali. L’atteggiamento civile degli iraniani, però, è sempre stato avanti rispetto allo Stato. Con la rivoluzione sono stati registrati esercizi di potere all’interno degli ambienti culturali, come, per esempio, l’imposizione di determinate discipline e materie nelle università. Al di là delle ingerenze che il potere può incutere, il mondo intellettuale in Iran ha sempre saputo come esprimersi, a tutti i livelli. Ne sono un esempio alcuni modelli culturali come il cinema, espressione di una scuola considerata tra le migliori al mondo.
L’opera di Giuseppe Acconcia è un esercizio di perizia e di dedizione che guarda al suo Iran con completezza e prudenza. Iran luogo dell’uomo e di Dio, dell’antico e del nuovo, dell’immaginazione e della concretezza. Volendo parafrasare Arthur Schopenhauer, si potrebbe dire che l’autore de Il grande Iran non guarda soltanto alla sua lanterna, ma al sole che disvela tutto il mondo.