“Germania anno zero” di Roberto Rossellini: in principio erano le rovine
“Ricorda, Fabrizio: non si può vivere senza Rossellini”
da: Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci
Nel 1947 Roberto Rossellini è un regista all’apice del successo: Roma città aperta, sebbene accolto inizialmente in maniera fredda, si era poi aggiudicato l’anno precedente il Grand Prix nella prima edizione del Festival di Cannes (sebbene ex-aequo con altri dieci film!) e il New York Film Critics Award, premio che toccherà l’anno dopo anche a Paisà. Il suo nome comincia a diventare ormai famoso in tutto il mondo ma per Rossellini sono anche anni di profondo dolore: nel 1946 muore a soli nove anni il figlio Romano, primogenito del regista e di sua moglie Marcella De Marchis, alla cui memoria il film è dedicato, come si legge nella didascalia iniziale.
Così, invece di battere il ferro finché è caldo, magari con un altro film resistenziale, Rossellini sceglie di andare a Berlino per raccontare la storia deprimente e poco edificante di un ragazzino tedesco che si aggira tra le macerie di una città totalmente distrutta, si intrattiene con un suo insegnante nazista che lo plagia con le sue teorie sulla necessità della morte dei “deboli” e della sopravvivenza dei “forti”, avvelena il padre malato e si suicida gettandosi dall’alto di un palazzo in rovina. Lo sguardo del regista sulla scabrosa materia è gelido, distaccato, apparentemente privo di reale partecipazione emotiva. Se i primi due film della cosiddetta “trilogia della guerra”, in mezzo al realismo e alla tragicità degli eventi narrati, regalavano più di uno squarcio lirico e numerosi momenti emozionanti (basti pensare alla celeberrima scena della corsa di Anna Magnani in Roma città aperta o all’episodio del convento in Paisà), Germania anno zero è, come dichiarò lo stesso regista, “un film freddo come una lastra di vetro… Non è uno spettacolo, a vederlo non ci si diverte”.
Il titolo è mutuato da un saggio allora recente di Edgar Morin, L’an zéro de l’Allemagne, in cui il sociologo e filosofo francese (oggi 96enne e ancora in piena attività) descrive la vita del popolo tedesco dopo la Liberazione. Rossellini questa volta non sceglie il ritratto corale, non moltiplica i piani narrativi, ma si concentra sulla breve storia personale del piccolo Edmund Koehler, anche se la vicenda diventa comunque lo specchio di una tragedia collettiva, la radiografia di un intero popolo in un momento storico preciso e circostanziato. Edmund è forse il primo tragico eroe bambino del cinema mondiale, legato a filo doppio con Ivan, il protagonista del primo lungometraggio di Andrej Tarkovskij, L’infanzia di Ivan (1962), altra fragilissima vittima di guerra. Ai due verrebbe da aggiungere almeno l’Antoine Doinel de I 400 colpi (1959) di François Truffaut e soprattutto la Mouchette (1967) di Robert Bresson, opere non legate alla guerra ma che denunciano la stessa drammatica mediocrità degli adulti, l’identica assenza in loro di qualsiasi senso di responsabilità.
Nel film di Rossellini i nazisti, sebbene distrutti e decimati, continuano a circolare a piede libero, a diffondere le loro malefiche idee secondo le quali i malati e gli invalidi vanno soppressi perché “bocche da sfamare”. È questa idea malsana che spinge Edmund ad avvelenare il padre ammalato per finire poi vittima del senso di colpa quando l’insegnante che gli aveva inculcato quelle idee nega ogni addebito. Rimasto solo, Edmund vaga per la città. Sono forse i quindici minuti più alti e sublimi di tutto il cinema di Rossellini. Prima di suicidarsi, il bambino gioca in mezzo alle macerie come se fosse in un luna-park, un parco di divertimenti spoglio e in rovina, recuperando proprio negli ultimi momenti di vita quel sentimento infantile che la miseria e la guerra gli hanno sottratto.
Questa era la grande Germania prima della ricostruzione e prima che, nel 1953, gli accordi di Londra le garantissero una cospicua riduzione del debito che l’aiutarono a risollevarsi e grazie alla quale oggi può fare la voce grossa nei confronti di qualche altro Paese che, sebbene per circostanze diverse, si trova oggi nelle stesse condizioni, bombardato dai missili dell’economia, tra le macerie e i detriti provocati da un sistema che strozza i popoli, limita la loro sovranità e li trasforma in sudditi. Sì, aveva ragione Rossellini: ora come allora non siamo davanti ad un bello spettacolo e non ci divertiamo per niente.
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