“Civiltà perduta” di James Gray: un uomo e il suo sogno
L’uomo dovrebbe sforzarsi di andare oltre
quello che non può afferrare. La ricerca della
bellezza porta già in sé la sua ricompensa.
Da: Civiltà perduta di James Gray
Nel 1906, il tenente Percy Fawcett (Charlie Hunnam), archeologo ed esploratore, viene inviato nella Foresta Amazzonica dalla Royal Geographical Society di Londra allo scopo di mappare alcuni territori contesi tra Bolivia e Brasile in modo da evitare una guerra che danneggerebbe gli interessi britannici nella zona. Fawcett parte insieme ad un pugno di uomini, tra cui Henry Costin (Robert Pattinson), che diventerà il suo braccio destro. Poco prima di ritornare in Inghilterra, Fawcett scopre alcuni reperti archeologici che lo portano a ipotizzare l’esistenza di un’antica città perduta, cui dà il nome di Z, e che potrebbe essere il mitico El Dorado.
The Lost City of Z, questo il titolo originale del film, è un progetto che James Gray covava da molti anni, da quando nel 2009 il produttore esecutivo Brad Pitt opzionò, con la sua Plan B, i diritti del romanzo di David Grann (che narrava le gesta di un uomo straordinario e un po’ folle, veramente esistito) e chiese al regista newyorchese di adattarlo per lo schermo. Civiltà perduta è la storia di un’ossessione, talmente forte da essere capace di occupare un’intera vita, e che costò a colui che la ebbe il sacrificio degli affetti familiari, la continua lontananza dall’adorata moglie Nina e dai tre figli, il primo dei quali, Jack, decise ad un certo punto di seguire suo padre in viaggio. Una storia del genere, che mette in scena le passioni e le ambizioni spropositate di un individuo, non poteva non essere nelle corde di un regista grintoso ed eclettico che si è sempre dimostrato incline a battere territori sempre nuovi, passando senza soluzione di continuità dal gangster-film che occhieggiava a Martin Scorsese (il dirompente esordio Little Odessa), alla saga familiare mescolata al racconto della lotta contro il crimine (The Yards e I padroni della notte), ad una storia romantica e sentimentale con echi dostoevskiani (il delicato Two Lovers), fino ad arrivare al più recente C’era una volta a New York, che raccontava una storia di sfruttamento dell’immigrazione nella New York degli anni ’20.
A differenza del capitano Willard del conradiano e coppoliano Apocalypse Now, il viaggio di Percy Fawcett non è in direzione della tenebra, alla scoperta del punto più nascosto e profondo in cui si annida il Male: l’esploratore raccontato da Gray vuole al contrario riportare alla luce qualcosa di perduto e sepolto, si muove alla ricerca del mitico regno di El Dorado, sulle tracce di una civiltà capace di trasformare la visione eurocentrica e limitata dell’uomo occidentale e di donarle una nuova e inaspettata prospettiva. Impossibile non vedere in questa smisurata enfasi la stessa assurda e sublime ossessione raccontata da Werner Herzog in Fitzcarraldo, pellicola che Gray richiama esplicitamente nella sequenza del canto d’opera in mezzo alla giungla, quasi a risarcimento del tentativo fallito dall’eroe interpretato da Klaus Kinski. Ben diversamente, invece, da un altro eroe herzoghiano/kinskiano, Fawcett non possiede la follia e la spietatezza di Aguirre, il narcisismo e la cecità dei suoi conquistadores: il suo “furore” è tutto vòlto verso la conoscenza e la comprensione di una cultura “altra”, schernita e sottovalutata dalla società del suo tempo.
Impregnato di cinefilia (oltre i riferimenti a Herzog e Coppola, si intravede persino, assai fugacemente, una citazione della grande sequenza della partenza di Moraldo ne I vitelloni di Federico Fellini), Civiltà perduta è anche un profondo melodramma sentimentale nella descrizione del rapporto amoroso di Fawcett con sua moglie Nina, donna colta, emancipata e illuminata, che si carica sulle spalle il pesante fardello di un marito sempre fisicamente distante ed in pericolo, personaggio dolente e straziato, a cui una magnifica Sienna Miller conferisce uno straordinario spessore illuminando tutte le sequenze in cui compare sino al magnifico, indimenticabile finale. Tra l’altro, anche in questo suo sesto (e forse migliore) lungometraggio Gray mette al centro del racconto le dinamiche della famiglia, i rapporti complessi e non sempre idilliaci che si creano al suo interno, come dimostra il rapporto tra Percy e Jack, il suo figlio maggiore, che prima odia il padre e poi finisce per innamorarsi a sua volta dell’impresa. Per questa ragione, al netto di qualche schematismo e qualche semplificazione (il ritrovamento dei cocci come prova dell’esistenza di “Z” risolto in maniera un po’ facile) e sebbene Charlie Hunnam, pur impegnandosi molto, non appare sempre all’altezza, Civiltà perduta è un film magistrale, da vedere e rivedere.
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