Giffoni 2017: Sicilian Ghost Story, a fare terrore è la realtà
di Ezio Azzollini
C’è una storia di fantasmi che fa un bel giro da due mesi a questa parte. È una storia che piace tanto, forse perché non è come tutte le altre. Perché in questa storia càpita che i fantasmi vengano proiettati delle persone quando sono ancora esistenti. Esistenti, ma non vive: perché la mafia, quella degli anni novanta, è una cosa capace di toglierti la vita anche quando non sei morto.
Sicilian Ghost Story, a due mesi dall’uscita nelle sale e con l’eco della sua portata ancora vivissima, arriva a Giffoni: e questo racconto di malavita, di fantasmi, ma soprattutto di ragazzi, piace ai ragazzi del film festival giunto alla edizione numero quarantasette, e piace in maniera plebiscitaria. Del resto, da sempre è a loro che sono destinate le ghost stories, anche quelle particolari come questa di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Ed è per i più giovani (almeno quanto per il pubblico di Cannes che ha applaudito i due registi siciliani anche a questo giro, come all’esordio con Salvo nel 2013) che ha maggiormente valore la storia che la coppia ha sentito il dovere di tirare fuori: quella, tra cronaca e rappresentazione fantastica, di Giuseppe Di Matteo. Ragazzo pure lui, nella Sicilia del 1993. Ragazzo, figlio di un collaboratore di giustizia, che per questo Giovanni Brusca decide di far sequestrare, a tredici anni soltanto, al termine di un pomeriggio bello come quelli che solo i tredicenni sanno passare, assieme alla sua innamoratissima Luna.
“Eravamo ragazzini cresciuti in quegli anni e in quei posti. Una volta diventati sceneggiatori, è con quegli episodi e quei contesti che dovevamo avere a che fare”: racconta così le ragioni di questa ghost story Antonio Piazza ai ragazzi della masterclass condotta da Francesco Alò, assieme ai giovanissimi attori del suo secondo lungometraggio in tandem con Grassadonia (Julia Jedlikowska, Gaetano Fernandez e Lorenzo Curcio). “Per raccontare quei fatti, la storia d’amore era la maniera che ci è sembrata giusta per questo film. A Giuseppe è questo che è stato negato più di tutto: l’amore”. L’ambientazione è quella dei colori morbidi e dei boschi di una Sicilia irreale e realissima, anche se “la Sicilia degli anni novanta è una scena dominata dalla paura, in cui si pensa che la mafia sia qualcosa di invincibile. E in cui a parecchie persone sta bene quello status quo”.
Il mash-up di generi per un’opera certamente non convenzionale, e che è probabilmente limitativo da imbrigliare nella definizione di fiaba dark (come, del resto, è ogni fiaba che si rispetti) non è così irragionevole: “Per decenni la tradizione del nostro cinema è stata quella del racconto di mafia con una rigida distinzione tra buoni e cattivi. I cento passi ha rappresentato l’ultimo esempio di quel tipo di cinema civile impegnato legato a temi di mafia. Poi è arrivata la fiction televisiva, quasi sempre focalizzata sulle vittime di mafia, fatta in maniera agiografica: sono dei santini, ritratti ricchi di stereotipi volutamente edificanti. Alla fine è diventata una forma dell’intrattenimento, uguale sempre a se stessa, che credo non abbia niente a che fare con la memoria”. Quella di Piazza e Grassadonia è una permanenza a proprio agio dentro i toni fiabeschi, dopo l’acclamatissimo Salvo, con un quoziente ancora maggiore di magia, esoterismo, forze spirituali. Anche se, tiene a precisare il regista siciliano, identità e consistenza di Giuseppe e di Luna non sono così dissimili da quelle dei personaggi del loro primo lavoro. In quel film fatto di lunghissimi silenzi (“Il grande film è un film che funziona anche senza una sola battuta”, è uno dei fondamentali assiomi in cui credono i due cineasti), la parabola dei due personaggi ha molte assonanze con quelli di Sicilian Ghost Story: “Salvo e Rita attraversavano il mondo non visti, anche loro è un po’ come se fossero fantasmi”.
Del registro fiabesco ed evocativo restano tutti i parametri: Sicilian Ghost Story è un film in cui assume valore semantico anche l’interazione con gli animali. Come il gufo, che tradisce la venerazione degli autori per David Lynch, e che “è una sorta di narratore nascosto, che sopravvive al tempo stesso”, o il cane feroce, “un presagio del male, forse perché è l’animale che più a anche fare con l’uomo”. Fiabesca è l’ingombrante presenza dell’elemento liquido, dall’inizio alla fine. “La dimensione dell’acqua è un punto di contatto tra mondo dei vivi e mondo dei morti, un luogo di metamorfosi, è la dimensione dell’assoluto, dell’aperto, in cui tutto è possibile”.
Sullo sfondo la mission, per la quale Grassadonia e Piazza battono un altro sonoro colpo a segno, di garantire una seconda vita al cinema italiano di genere, che dopo la stagione benedetta del 2016, tra grandi (e forse premature) speranze ha vissuto un’annata successiva così così. E che rischia di restare esso stesso un fantasma: “Nel cinema di genere noi crediamo tantissimo. L’Italia ha una tradizione gloriosa, a fronte dei grandi autori c’era un’altra industria dedita a quel tipo di opere, c’erano registi come Mario Bava che dalle ristrettezze inventavano soluzioni straordinarie. Oggi in Italia il cinema di genere la critica non te lo perdona. Gli americani sono abituatissimi a raccontare secondo tutte le declinazioni di genere, è proprio loro sono stati i primi a entrare in sintonia con questo film, a parlarne bene”. Parlano invece poco loro, i personaggi di Grassadonia e Piazza. Poco parlavano i due protagonisti di Salvo, e poco si deve parlare in questo paese ai lati del bosco, specie di quel ragazzino sparito, figlio di un infame. Solo che Luna non ci sta, Luna è innamorata: è l’inizio di una fiaba dell’orrore su una storia vera che fa orrore. Due mesi dopo, questa storia nella quale a fare paura non sono gli spettri non s’è ancora stancata d’incantare.
(foto di copertina di Lucia Perrucci)