They’re coming to get you, George…
George Andrew Romero non è stato soltanto uno dei registi più innovativi e rivoluzionari del cinema horror e il creatore di una icona del perturbante che è ormai indelebilmente impressa nel nostro immaginario collettivo. In una visione a posteriori, è stato il primo a dare, forse all’inizio suo malgrado, un’autorevolezza contenutistica al genere, o meglio ad adeguarne i contenuti ai cambiamenti che in quegli anni scuotevano la società occidentale. Si è scritto molto e spesso del fatto che il film L’esorcista di William Friedkin sia stato lo spartiacque che ha reso il cinema horror adulto e autorevole, ma in realtà va riconosciuto all’opera prima di Romero, Night of the Living Dead, il merito di aver segnato un punto di non ritorno in campo cinematografico, ma di aver dato all’horror su pellicola un’autorevolezza tale da in influenzare in modo irreversibile anche la letteratura successiva. Non solo lo scenario apocalittico da lui immaginato ha dato origine a numerosi racconti confluiti in antologie di successo negli anni ’80, non solo ha dato ispirazione a romanzi di celebrati autori, soprattutto agli albori del Terzo Millennio, ma le caratteristiche estetiche e stilistiche del suo cinema hanno prefigurato i canoni del movimento letterario dello splatterpunk, non a caso caratterizzato da un dichiarato rapporto di omaggio e osmosi con il mondo del cinema e la cultura delle proiezioni a basso costo di genere slasher/gore degli anni ’70 e ’80 (per fare un esempio autorevole, il racconto breve di Douglas E. Winter, Splatter, una storia morale, vero e proprio manifesto d’intenti artistici, è zeppo di citazioni dell’opera romeriana).
Non comincia con Romero, questo rapporto osmotico. Lo stesso romanzo Io sono leggenda di Richard Matheson, opera che ha fornito una rilevante ispirazione al regista, forse non sarebbe stato scritto se il suo autore non fosse stato ispirato dalla visione del Dracula con Bela Lugosi. Tuttavia con La Notte dei Morti Viventi assistiamo alla nascita di un mostro nuovo, senza diretti precedenti letterari (se non qualche intuizione di Lovecraft e, appunto, il romanzo di Matheson, che però ci presenta dei vampiri), e con un legame davvero labile e superficiale con il folklore. Soprattutto, una figura in grado di sublimare istanze e inquietudini sociali come mai prima un film macabro aveva fatto (vi era stata la fantascienza, soprattutto negli anni ’50, a sublimare la paura dell’invasione e quella dell’olocausto nucleare nell’immaginario cinematografico statunitense). Ma forse questo discorso, sui sotto-testi di critica sociale, si attaglia meglio ai successivi lavori di Romero, Dawn of the Living Dead e Day of the Living Dead, in cui le situazioni mostrate hanno la capacità di evidenziare paradossi della condizione dei morti, nonché dei viventi che cercano di contrapporre una civiltà ormai al tramonto e minata da un imbarbarimento che appare un gradino appena più sopra della spasmodica fame della massa dei ritornanti.
Nel primo film di Romero, ciò che risalta a distanza di quasi 50 anni è la terrificante bellezza della resurrezione di massa orchestrata dinanzi alla macchina da presa, la lenta, cedevole eppure implacabile forza della massa silenziosa che assedia i vivi nella casa di campagna. Il capovolgimento della una situazione classica mostrata nella cinematografia e narrativa precedente (il morto che terrorizza il mondo dei vivi, laddove nel suo film si prefigura già una realtà in cui il “mondo dei vivi” già scivola lungo il baratro del passato, mentre la morte diviene invece rinascita dell’individuo in un nuovo ordine mondiale) è il colpo di genio che inciderà il nome di questo primo film, girato in povertà di mezzi e sul filo dell’amatorialità, gloria imperitura negli annali di storia della Settima Arte.
Romero ci ha lasciato tanto, con questa sua geniale intuizione, geniale a tal punto da finire paradossalmente per intrappolarlo all’interno di un sottogenere cinematografico creato da lui stesso, vanamente imitato da molti venuti dopo di lui. Nonostante altre ottime prove nel campo dell’horror (il film Martin, tradotto con il titolo Wampyr in italiano, è una rivisitazione molto originale del filone vampirico, e va menzionata anche la sua trasposizione da Stephen King con La metà oscura), ciò che il pubblico voleva da lui erano i suoi zombie, o tutt’al più dei viventi resi pazzi e contaminati dal solito esperimento militare finito fuori controllo (La città verrà distrutta all’alba). Ma del messaggio nascosto nelle sue opere, probabilmente la massa non ha colto il vero senso, né il suo grido di allarme nei confronti di una società in cui il benessere diffuso e la dipendenza dagli oggetti di consumo sono il primo passo verso un abbrutimento mentale che ci rende, metaforicamente, tutti zombie. In questi tempi di analfabetismo funzionale, di totale perdita dell’empatia individuale, di file di persone che assediano esagitate i punti vendita per accalappiarsi l’ultima versione di un gingillo tecnologico che funga da status symbol, forse il messaggio di Romero è superato, essendosi realizzato ormai nonostante i suoi ripetuti avvertimenti. Della eversiva critica sociale dello zombie da lui concepito resta pressoché nulla, e al di là del comprensibile ribrezzo e raccapriccio che ispira istintivamente, poco resta della sua originaria carica perturbante mostrata nel film del 1969, quando l’avanzata silenziosa degli zombie appariva il simbolo della parte reietta della nostra società che prendeva consapevolezza della sua forza. O forse no, e ci sarebbe ancora bisogno della sua poetica e del suo stile nell’utilizzare la morte come metafora della nostra vita, nel mostrare negli zombie gli esseri umani che siamo diventati e stiamo diventando. Ma purtroppo stavolta sono venuti a prendere te, George…