“Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese: se questi sono uomini
“Per me fare il gangster è sempre stato meglio che fare il Presidente degli Stati Uniti”
Da Quei bravi ragazzi
Nel 1948 Robert Warshow, critico e saggista americano prematuramente scomparso, pubblicò un libro molto interessante e per certi versi pioneristico. Il testo si intitolava The Gangster as a Tragic Hero e ragionava sui mutamenti nella cultura e nella società statunitense nel momento in cui in essa fece il suo ingresso la figura nuova del gangster (e poi del mafioso), spesso considerato, forse un po’ forzatamente, come un’evoluzione della figura del fuorilegge/bandito di cui erano popolati i film western. Come il titolo del volume attesta, il cinema rivestì l’immagine e l’esistenza del malavitoso di un’aura di tragicità e romanticismo, facendone un emblema di rivolta.
Tra le numerose pellicole con al centro la figura del malavitoso che precedettero lo scritto di Warshow, tre delle più famose e citate del genere vennero realizzate, una di seguito all’altra, nei primi anni ’30: Nemico pubblico di William Wellman con James Cagney, Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy con Edward G. Robinson (entrambe del 1931) e Scarface (1932) di Howard Hawks con Paul Muni, a tutt’oggi una delle vette del genere, oggetto di un celebre remake nel 1983, con la regia di Brian De Palma e un iconico Al Pacino nei panni del fuorilegge Tony Montana.
L’opinione di Warshow era che la figura del gangster irradiasse fascino perché esprimeva quella parte della società statunitense che si contrapponeva alle pretese e agli obblighi della vita moderna dimostrandosi riluttante a qualsiasi forma di integrazione. Insomma, il gangster era a suo modo un outsider, qualcuno che viveva al di fuori delle convenzioni prima ancora che al di sopra della legge, ed era il rappresentante di una società che viaggiava su binari opposti e paralleli rispetto a quella del resto degli uomini. Per questa ragione, il suo universo non poteva che essere costituito da nuclei chiusi, refrattario ad ogni incursione esterna, e la sua esistenza era destinata a svolgersi quasi esclusivamente all’interno degli unici due gruppi nel quale poteva sentirsi riconosciuto: la famiglia (in senso biologico) e la Famiglia (cioè i compagni e i complici della vita malavitosa con i rispettivi nuclei familiari).
Quei bravi ragazzi (Goodfellas), girato da Martin Scorsese nel 1990 e vincitore del Leone d’argento alla 47° Mostra del Cinema di Venezia, è allora un film magistrale perché mette in scena la summenzionata immagine del gangster, dapprima disegnandola come figura affascinante e degna di ammirazione per poi smontarla dall’interno attraverso lo scandaglio di un mondo criminale che diventa, in corso di svolgimento, un vero e proprio trattato di antropologia criminale. Il punto cruciale e vincente del discorso portato avanti dal maestro newyorchese sta nell’adozione di un doppio punto di osservazione. Infatti, da un lato c’è lo sguardo del protagonista Henry Hill, interpretato da un Ray Liotta mai (più) così bravo, ammaliato dalla vita che conducono i “bravi ragazzi” del titolo e che, da quanto ricorda, “ha sempre voluto essere un gangster”; dall’altro lato, c’è invece lo sguardo dello spettatore cui il regista fa osservare l’ascesa e caduta del protagonista, un uomo la cui vita è sempre in pericolo e che è costretto a fare la spia per salvarsi dalla galera o dalla vendetta degli ex-compagni.
La vicenda raccontata nel film non è altro che la descrizione, con perfezione quasi clinica, di un mondo in apparenza dorato e abitato da vincenti, ma al cui interno vigono regole di un’inflessibilità e di un’inesorabilità quasi tribale. Martin Scorsese trasse la storia di Goodfellas dal romanzo Wiseguys (pubblicato da Rizzoli con il titolo Il delitto paga bene) di Nicholas Pileggi. Tuttavia, egli conosceva benissimo la “società” descritta nel film, essendo cresciuto a Corona, un quartiere del Queens zeppo di italo-americani, dove era d’obbligo affiliarsi o essere conosciuti da qualche “gruppo” o “famiglia” per evitare di incorrere in grossi guai in un mondo dove diventare delinquenti era facilissimo. Due sequenze del film, basate su episodi realmente accaduti, descrivono in maniera precisa il labile confine tra la vita e la morte proprio di quell’ambiente. La prima è quella in cui tutti i gangster sono intorno ad un tavolo e il protagonista dice a Tommy, il personaggio interpretato da Joe Pesci, che “è molto buffo” e Tommy gli chiede cosa voglia dire, se cioè pensa che lui sia un pagliaccio e stia lì per divertirlo, al punto che Henry smette di ridere ed è profondamente spaventato prima che Tommy gli riveli che stava scherzando. La seconda è quando lo stesso Tommy prima spara ad un piede e, successivamente, uccide per futilissimi motivi il cameriere del bar. Ecco, sembra dire il regista, è così che andavano le cose: un attimo prima te ne stai a ridere e scherzare, un attimo dopo ti ammazzano, anche per un nonnulla. Insomma, in un contesto simile si è come attori che su un palcoscenico pronunciano la battuta sbagliata davanti ad un pubblico suscettibile e armato fino ai denti.
Con Goodfellas Scorsese ha avuto l’ambizione di realizzare un gangster movie che non avesse precedenti nella storia del cinema. Nella messinscena della quotidianità di questi piccoli impiegati del crimine descritta con minuzia e millimetrica precisione, svuotata di ogni vero fascino, l’autore compie un’operazione che ricorda, per certi versi, quanto fatto vent’anni prima da Arthur Penn in un film diversissimo ma impregnato dello stesso spirito iconoclasta: in Piccolo grande uomo, infatti, il reduce Jack Crabb (interpretato da Dustin Hoffman) riscriveva la storia del West attraverso la smitizzazione di presunti eroi come Wild Bill Hickok, Buffalo Bill e il generale Custer. È questa la ragione per cui nel capolavoro di Scorsese prevale un forte realismo non solo nella rappresentazione della violenza ma anche nei momenti in cui il film si concentra sulle abitudini, i riti, la vita familiare e lo svolgimento delle attività criminali da parte dei protagonisti.
In questo senso, persino altri due film epocali del genere come i primi due episodi della saga de Il Padrino (1972-1974) dell’amico Francis Ford Coppola, sono ancora permeati di qualche piccola scintilla “romantica”, sia nel personaggio del patriarca interpretato da Marlon Brando che si oppone al traffico di droga definendolo “sporco” sia nel racconto della biografia di don Vito Corleone che diventa un boss quasi suo malgrado, e con il quale è impossibile non empatizzare quando si difende dalle angherie del boss di quartiere Fanucci, interpretato da Gastone Moschin. Nel film di Scorsese invece c’è spazio solo per la violenza più spietata, sia essa “necessaria”, pianificata o improvvisa, che si svolge all’interno di un mondo dove, come in un universo concentrazionario sebbene in maniera diversa, “si muore per un sì o per un no”. La morte non ha nulla di “tragico”: è solo una questione d’affari.
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