Le tre rappresentazioni dell’omosessualità in Aldo Palazzeschi contro le “coglionerie” morali
di Marco Antonio D’Aiutolo
“La sessualità è inquinata da secoli di coglionerie morali religiose letterarie”. Questa pungente osservazione della Contessa Maria, personaggio di Aldo Palazzeschi, mi permette di iniziare il presente articolo e unire, in esso, i due argomenti della rubrica: il rapporto sessualità-cultura e la letteratura omosessuale del Novecento italiano. Palazzeschi (1885-1974) è il secondo autore su cui, dopo Saba, si concentrano l’analisi letteraria, la ricostruzione bibliografica e l’interpretazione di Francesco Gnerre in L’eroe negato. Sebbene la sua produzione, di quasi settant’anni, si apre e si chiude con due raccolte di poesie (I cavalli bianchi, 1905 e Via delle cento stelle, 1972), ciò che, ai nostri fini, ci interessa sono le sue modalità di rappresentazione dell’omosessualità presente nei romanzi. Gnerre ne rintraccia tre.
La prima è quella esplicita, riportata nel primo romanzo, :riflessi del 1908, in cui il tema dell’omosessualità è di chiara derivazione autobiografica. Pubblicato a soli 23 anni, il romanzo comprende un momento della vita dell’autore fatto “di entusiasmo e di bisogno di liberazione proprio dell’età” e gode dell’atmosfera decadente e dannunziana del primo decennio del Novecento, “favorevole alla rottura degli schemi legati ai comportamenti sessuali”. Diviso in due parti, :riflessi riporta nella prima trenta lettere del protagonista, il principe Valentino Kore, 29 anni, scritte al suo amico-amante, Jonny. Qui l’omosessualità si esplica con un gusto liberty-dannunziano riconducibile, come ricorda Dario Trento, a Oscar Wilde, Thomas Mann, Marcel Proust, e influenzata dalla rappresentazione estetizzante tipica di Walter Pater e Joachim Winckelmann.
In Sessualità e nazionalismo, G. L. Mosse aveva precisato che il modello winckelmanniano della scultura greca e l’accentuato biancore delle statue furono simbolo di mascolinità nazionalista, di gioventù e di bellezza asessuale; inoltre sottolineò che “c’era una qualche ironia nel fatto che un omosessuale, Winckelmann, avesse adattato l’arte greca ai gusti delle classi medie e abbia fornito il modello per lo stereotipo maschile nazionale”. Tuttavia :riflessi è ben lungi dal piegarsi a questo stereotipo. A parte la bellezza statuaria con cui il principe Valentino descrive l’amante, è il suo stesso suicidio – presagito nell’ultima lettera e che ricalca quello della madre, anch’ella suicidatasi a 29 anni – ad accostare Palazzeschi più al decadentismo che al virilismo nazionalistico.
Per giunta, nella seconda parte del romanzo, è lo stesso dramma a venir meno e a lasciar spazio ad una cronaca di agenzie di stampa, paradossale e ipotetica, contraddittoria e caleidoscopica, che sbaraglia il lettore. “La scomparsa di Valentino Kore diventa parodia e irrisione e il personaggio apre il lungo elenco di personaggi di Palazzeschi che scompaiono misteriosamente dalla scena accompagnati da un’esplosione ottimistica di riso” (F. Gnerre).
Così accade all’uomo “molto leggero”, l’uomo di fumo che invoca “Pena, Rete, Lama, Pe…Re…La” e che alla fine scompare verso il cielo, nel secondo romanzo di Palazzeschi, Il codice di Perelà (1911). Se però qui, il tema dell’omosessualità, come amore tra due uomini, non viene esplicitato, sicuramente viene rappresentato attraverso l’importante tema della diversità, la seconda modalità, perlopiù legata alla sessualità. La stessa del protagonista dell’altro romanzo, La piramide (scritto nel 1912-1914 e pubblicato nel 1926), il quale sperimenta l’impossibilità di una vita in comune e si rifugia su una piramide; o di quello dall’aspetto mostruoso, con i genitali al posto della testa e la testa al posto dei genitali, in Stefanino del 1969 (di un Palazzeschi oramai ultraottantenne).
Non è possibile soffermarci su questi tre romanzi. Tuttavia, va evidenziato come, in essi, l’autore descrive in maniera beffarda e grottesca l’atteggiamento della gente verso la diversità. Ne Il Codice di Perelà si mostra mutevole: passa dalla reverenza all’emarginazione e odio, fino all’accusa di omosessualità, “con una facilità che non à giustificazioni”. In Stefanino, è curiosità morbosa ed esilarante. Non mancano, però, i riferimenti al comportamento omosessuale, che ne La piramide, diventano una vera e propria teoria difensiva: “Vi avrei voluti veder nel caso mio, se capaci sareste stati di resistere all’invito dolce ma deciso di Cecco, alla spinta ciclopica di Pietro, e alla forza satanica di Agesilao con le sue lugubri grida nel cuore della notte, pareva il lupo mannaro, e con un dito solo, dall’alto e senza neppure toccarmi mi faceva frullare come un centesimo”.
Infine tutti e tre i personaggi svaniscono nel nulla ed è la medesima diversità, intesa come fuga dal mondo, che si ritrova anche in una novella, Il re bello, che dà il titolo ad una raccolta del 1921. Nel favoloso regno di Borònia, un re, ossessionato da undici figlie e dalla mancanza di un maschio, prima del dodicesimo parto della regina, ordina comunque di annunciare al popolo la nascita di un erede. Il principe cresce lontano da occhi indiscreti e, a vent’anni, dopo la morte del re, eredita il trono. Sceglie e sposa la più soave delle principesse della terra e, a nozze fatte, le confessa la terribile menzogna: “Non sono il tuo Re, mia cara, no, no, eccoci qui, siamo due regine”. Dove “regina”, sottolinea Gnerre, è proprio un’allusione ironica al mondo omosessuale.
Alla regina frastornata, il “re” indica la possibilità di godere delle giovani guardie: ce ne sono tante, bruni, biondi, con “occhi che ti spogliano se ti guardano e ti frugano e ti arrivano fino in fondo dove più non è vergogna o ragione, non è pudore”. Mentre, per sé, niente: “io…no!”, “io sono il Re, intendi?”. Alla fine, tuttavia, sarà proprio il “re”, e non la regina, a goderne, per poi sparire, a sua volta, come ogni altro personaggio di Palazzeschi. Solo che la peculiarità di questa scomparsa è che avverrà nelle vesti femminili di una contessa, Matilde del Pioppo, “simpaticamente libera, e un poco leziosa”. Ecco che viene mostrata la terza modalità rappresentativa dell’omosessualità: quella al femminile, perché troppo scandalosa da attribuire a un personaggio maschile.
Tale modalità raggiunge l’apice in Interrogatorio della Contessa Maria (scritto nel 1925-1926), da cui è stato tratto l’incipit di questo contributo. Il romanzo esprime gioiosamente la rottura di tutti gli schemi morali e afferma una spregiudicata e rivoluzionaria visione della sessualità. Intervistata da un amico che desidera esplorare l’animo umano, la contessa descrive il “giuoco” di seduzione: incontrarsi, frugarsi, spogliarsi, per “via, a teatro, al caffè” (“Il reciproco, spontaneo, desiderio è tutto”, osserva); e racconta le ben 200 relazioni avute all’anno. “Il narratore – commenta Gnerre – è affascinato dal racconto delle contessa, e insieme, al lettore, sembra alla fine aver messo in discussione il concetto di ‘virtù’ o perlomeno aver trovato per la virtù ‘altri e più veri confini’ ”.
Purtroppo, il romanzo verrà pubblicato solo quattordici anni dopo la morte dell’autore, nel 1988. Palazzeschi lo chiude in un cassetto. Certamente si tratta del noto atteggiamento di autocensura, dipeso dalla pessima accoglienza della critica che ebbero le novelle, in particolare, Il re bello. Di esso, si dice che si avverte un’ossessione polemica genitale, quasi come se l’artista fosse “contrariato da quella normalità di funzioni che la Natura ci ha imposto” (L. Russo, 1923).
Di qui, probabilmente, anche le varie revisioni ed epurazioni fatte dal Palazzeschi alle successive edizioni dei romanzi di cui abbiamo parlato. Non mancheranno, però, nelle opere successive, il viscerale anticonformismo, le rievocazioni autobiografiche, l’ambiguità dei rapporti amicali maschili, come in Stampe dell’800; né la rappresentazione dell’omosessualità al femminile, come in Sorelle Materassi del 1934 (a cui, insieme al romanzo, I fratelli Cuccoli, dedicherò un altro articolo); né, ovviamente, il riferimento alla diversità, come si è visto in Stefanino del ’69.
Anzi, in quest’ultimo, Gnerre rivela la chiave di lettura di buona parte della narrativa di Palazzeschi, che – a mio avviso – è anche una risposta all’ormai lontana polemica, fatta di “coglionerie morali”, da parte della critica. Quando, infatti, il sindaco dice a Stefanino che egli rappresenta “un errore della natura”, questi gli risponde: “Un errore siete voi che la natura non riuscite a comprendere e per cui rimanete ignoti anche a voi stessi”.
Vi lascio invitandovi ad ascoltare questa irriverente poesia: I fiori di Palazzeschi, recitata dal grande Paolo Poli: